di Paolo Pombeni*

I BAMBINI UCCISI A KIEV VALGONO MENO DI GAZA?

Perché il numero delle vittime civili provocate dai bombardamenti russi in Ucraina non causano un moto di ripulsa da parte dell’opinione pubblica almeno pari a quello che è stato suscitato dalle bombe sganciate su Gaza? Vale la pena di porsi questa domanda.

Non certo per concludere che quanto è successo nell’enclave palestinese sia in fondo da accettare come l’inevitabile bruttura e malvagità di ogni guerra. Non è così, ma rimane che ci si deve interrogare sul perché quanto succede nella martoriata Ucraina non sembra muovere non solo l’empatia popolare, ma neppure la riflessione di molte forze politiche le quali vorrebbero presentarsi come guardiane della giustizia internazionale. Come è stato documentato dagli osservatori internazionali, il numero di vittime civili provocate dalle forze armate russe è stato altissimo, abbastanza simile a quello registrato nella Striscia di Gaza. Volendo essere sofistici si potrebbe dire che in quel caso è “spalmato” su tre anni di guerra contro i due dell’altro caso, ma non ci sembra determinante. Altrettanto e al contrario si potrebbe osservare che nei bombardamenti israeliani i civili sono rimasti vittime della commistione quasi inestricabile fra vita ordinaria e organizzazione terroristica di Hamas, mentre in Ucraina qualcosa di simile non è riscontrabile. Ma nessuna di queste considerazioni risponde alla nostra domanda. In realtà c’è una questione diciamo così “culturale” alla base della diversa considerazione dei due casi. Per quanto riguarda la vicenda del Medioriente tutto viene inquadrato nella categoria della lotta degli oppressi contro gli oppressori. Sebbene un problema di quel genere ci sia, non lo si può ridurre allo schematismo dei buoni sfruttati contro i cattivi sfruttatori. Israele ha reagito, in modo esagerato e senza una strategia politica razionale, ad una pesante aggressione: non solo il gravissimo massacro del 7 ottobre 2023 perpetrato contro civili inermi senza rispetto di donne e bambini in atti di violenza individuali (le bombe, paradossalmente, sono più “neutre” nel colpire), ma i continui lanci di missili contro il suo territorio da parte di soggetti con cui non era in guerra (se non in termini “asimmetrici”). Nonostante questo, l’immagine, non del tutto infondata, ma neppure del tutto vera, è quella di un gigante super armato che ha voluto distruggere un popolo disarmato ed inerme (mentre, ovviamente, Hamas aveva forze armate e risorse belliche notevoli ed era sostenuta dai missili dei famosi “proxy” sostenuti dall’Iran e non solo). Nel caso del conflitto russo-ucraino questo coinvolgimento per così dire “sentimentale” non ha funzionato. Nonostante quella guerra sia stata chiaramente scatenata da una arbitraria invasione della Russia di Putin contro un paese che non la minacciava, dopo una prima fase di sostegno e di simpatia per quello che sembrava un agnello (l’Ucraina) destinato ad essere rapidamente sbranato dal lupo (Putin), questa visione ha perso presa perché l’agnello si è mostrato in grado di difendersi e di mettere in difficoltà il lupo, sia pure grazie al supporto degli Usa e dell’Europa. A questo punto la vicenda ha iniziato ad essere percepita in modo diverso (e distorto): come la guerra fra due “stati”, certo di peso diseguale, ma comunque inseribili ad uno sguardo distratto nella stessa categoria. Così hanno potuto circolare le interpretazioni fantasiose di una Russia che reagiva ad una minaccia della Nato ai suoi confini (se la si prende per buona, difficile negare che attaccherà presto i Baltici e la Finlandia…), di un regime di Kiev di destra con venature naziste messo al potere da elezioni manipolate (sai da che pulpito venivano queste prediche…), di una guerra che si protraeva per l’ostinazione di Zelensky e del suo gruppo dirigente di non concedere alla Russia la tutela, anzi qualcosa di più, sui suoi territori con popolazione russofona. E mettiamoci anche un po’ di anti americanismo storico, che dal Vietnam in poi non è mai venuto meno. Come nel caso di Gaza è scattato il riflesso di Pavlov relativo al terzomondismo e ai “dannati della terra”, così nel caso dell’Ucraina ha agito la condanna generica e aprioristica del “nazionalismo” come sentimento necessariamente sbagliato, soprattutto perché nella percezione diffusa quel territorio non è considerato né come post-coloniale, né veramente come parte dell’Europa (la sua geografia e la sua storia sono in effetti molto complesse e sostanzialmente sconosciute). Eppure la conduzione della guerra da parte della Russia rompe tutti gli schemi di quella “civiltà occidentale” che peraltro Putin e i suoi rifiutano: non riconosce i confini internazionalmente stabiliti, proclama diritti imperiali “storici” che abbiamo abbandonato da tempo, usa il terrorismo dei bombardamenti sulle popolazioni civili come strumento per annientare il consenso ad una identità nazionale che sostiene lo spirito di resistenza degli ucraini (per non parlare di comportamenti aberranti come i rapimenti di bambini, l’uso della tortura contro i prigionieri e nei territori occupati, ecc.). Perché dunque tanta parte della nostra opinione pubblica non sente una partecipazione doverosa alla tragedia ucraina, mentre è facilmente disponibile a sentirsi dalla parte degli abitanti di Gaza? Sia chiaro: non abbiamo nessuna intenzione di usare il richiamo al dramma del paese di Zelensky come mezzo per distogliere l’attenzione da quello dei palestinesi o per negarlo. Anzi, vogliamo mettere con forza in parallelo le due “guerre devianti” (se ci si concede di inventare questa definizione) per richiamare all’importanza che opinioni mature di paesi democratici accettino visioni non schematiche dei drammi in corso e sostengano interventi che contrastino quelle derive: non solo con tutti i mezzi per mettere fine alle inutili stragi e ristabilire adesso gli equilibri necessari, ma per dotarsi dei mezzi di dissuasione per il ripresentarsi d’ora in avanti degli avventurismi nella geopolitica.

*Fonte: Il Mattino

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