di Ruben Della Rocca*

A poche ore dall’inizio delle celebrazioni per lo YomHaZikaron, il giorno che in Israele ricorda i caduti delle guerre e le vittime del terrorismo, la presenza a Roma delle famiglie di cinque ostaggi israeliani rapiti e deportati a Gaza squarcia un silenzio che si fa incombente sulla sorte dei cinquantanove ancora detenuti nelle mani dei terroristi di Hamas.
Mentre si discute su quanto avviene sul campo nella Striscia, nelle stanze della diplomazia ci si dimentica di chi vive segregato e privato delle libertà da oltre cinquecentosettanta giorni – in uno stato di indigenza e di violenze subite – come testimoniato da quei rapiti che hanno ritrovato la libertà.
Le famiglie accolte a Roma in questi giorni hanno già avuto la notizia pressoché certa del decesso dei loro cari per mano di Hamas. Idan Shivti, ventotto anni, rapito al Nove Festival; Jonathan Samerano, ventuno anni, rapito dal Kibbutz Be’ri; Uri Baruch, trentadue anni, sergente dell’Idf, ucciso da Hamas lo scorso marzo; Shai Levinson, diciannove anni, sergente dell’Idf, caduto nella battaglia con i terroristi il 7 ottobre e il cui corpo è stato portato a Gaza dai terroristi; e Muhamad al-Atrash, trentanove anni, sergente che prestava servizio nell’unità Bedouin Trackers e ucciso in combattimento – anche il suo corpo, nelle mani dei terroristi nella Striscia.

Proprio dal fratello del sergente al-Atrash sono arrivate le parole più significative contro Hamas, che non può e non deve rappresentare il mondo musulmano e il popolo palestinese. Lui, beduino, musulmano, fa appello perché il mondo isoli e disarmi per sempre la forza del male che governa Gaza.
A loro volta, gli altri familiari hanno insistito nel denunciare le violenze subite dai loro cari e dagli altri rapiti da Hamas, paragonandola all’Isis e ricordando che Israele sta combattendo una guerra al terrorismo e non contro il popolo palestinese. A domanda precisa se avessero mai ricevuto proposte di sostegno da parte della Croce Rossa Internazionale, di Amnesty International o di altre organizzazioni umanitarie, la loro risposta è stata categorica: no, nessuna di loro li ha cercati per sostenerli, confortarli o aiutarli.

Categorica, invece, la denuncia nei confronti dell’Unrwa, soprattutto di Kobi Samerano, il papà di Yonatan, che accusa l’organizzazione delle Nazioni Unite delegata da decenni a portare aiuti ai palestinesi come fortemente collusa con i terroristi e in mano ad Hamas, che distrae fondi e generi di conforto destinati alla popolazione.
Non una novità nella storia di questo conflitto, perché in questi mesi sono stati già identificati alcuni membri dell’organizzazione che hanno partecipato ad azioni terroristiche e tenuto prigionieri, nelle loro abitazioni, ostaggi israeliani.

A suggellare la mattinata, l’abbraccio fraterno e commosso tra lo stesso Kobi Samerano e una donna esule iraniana che, a sua volta, ha denunciato le violenze del regime teocratico degli ayatollah e manifestato affetto e solidarietà per i rapiti di Gaza e per le loro famiglie, esortandoli a non mollare e auspicando che Israele vada avanti fino alla sconfitta totale del terrorismo di Hamas.

Quello che intanto il mondo non deve fare è dimenticare gli ostaggi. Nella Striscia ci sono ancora cinquantanove persone rapite il 7 ottobre 2023 che vanno riportate a casa, che siano vive o che si tratti dei loro corpi. Solo così si potrà cominciare a parlare seriamente di un piano e un futuro di pace a Gaza.

*Linkiesta

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