L‘ultimo libro di Miriam Rebhun, “La dedica”: il vissuto ebraico come un romanzo

di Antonio Cardellicchio

Un nuovo libro di Miriam Rebhun, “La dedica” (Giuntina): vivido, animato, dolce, con la cultura della gioia e di un dolore avverso e imposto. Tipico e atipico vissuto ebraico narrato con vivace realismo e asciutta affabulazione. Frammenti, pulsioni, vibrazioni, onde di memoria che si scompongono e ricompongono in un mosaico che poi diventa una trama. In un’avventura esistenziale avvincente e struggente. Una sorta di giallo sentimentale.

Solo lo Zakhor, Ricorda!, il forte e radicato senso ebraico della memoria poteva animare un libro come questo, nel valore ebraico della famiglia e di un popolo vivente esistente con l’animo forte della sua radice e del suo avvenire. Una scrittura della memoria oltre l’oblio, realizzata in modo esplicito come una mitzvà.

Due fratelli gemelli molto legati tra loro, Heinz Rebhun e Kurt Emanuel detto Gughi, padre e zio di Miriam, ebrei berlinesi, generosi sionisti, combattenti della Brigata Ebraica, pionieri in Palestina. Il padre ucciso dalla pallottola di un terrorista arabo quando Miriam è ancora nella prima infanzia, lo zio caduto nella Guerra di Indipendenza di Israele nel 1948. Gughi ha generato e poi abbandonato una figlia, Daphna, scomparsa e dispersa, che dovrebbe avere la stessa età dell’autrice. Chi è questa cugina? Esiste veramente? Come e perché è scomparsa? Se ne sono perse le tracce.

Da labili indizi, con tenace volontà, ricompone con piccoli pezzi successivi il vuoto di questa esistenza, e finalmente poi, tra alterne e complesse vicende, da esili segni riesce a riconoscere e avvicinare la mitica cugina.
Nate nel 1946, “Daphna e io… in quanto ebree, eravamo gli ultimi anelli di una catena che alle nostre spalle aveva perso tante maglie, ultime arrivate in famiglie di vittime, di dispersi, di sopravvissuti, e in quanto residenti in Palestina inconsapevolmente soggette a pericoli e tensioni, in famiglie che vivevano in uno Stato di incertezza, in cui si alternavano grandi speranze e forti paure.
I primi anni del dopoguerra in Palestina erano solo tempi confusi e difficili, erano tempi febbrili, angosciosi, e quelli che ci abitavano erano in bilico, in pericolo, e non trovavano pace.” (p. 38)

Ecco la narrazione della grande speranza, del sogno millenario.

“Dalla vittoria alleata, gli ebrei si aspettavano tutto quello a cui aspiravano da tempo: l’idea sionista negli anni aveva prodotto in Eretz Israel risultati tangibili , non c’era ancora lo Stato, ma erano state allestite le sue strutture, l’istruzione, la sanità, la difesa, il sindacato, la rappresentanza politica, in maniera atipica ma inefficiente, persino la Filarmonica avevano organizzato, mancava solo la sovranità su quel territorio su cui ebrei di ogni provenienza, sempre più numerosi, abitavano e lavoravano.”

Diaspora, vicissitudini, persecuzioni, Shoah, hanno disperso, oppresso, annientato tante famiglie ebraiche. Ora vogliono ritrovarsi, ricomporsi, risorgere, amare la vita. Miriam vuole, deve trovare Daphna:
“Ora sento me e Daphna come due calamite che hanno ognuna una propria forza di attrazione, ma non sanno dove dirigerla, hanno bisogno di una mano che imprima la direzione.”

(Miriam Rebuhn)

Con un vivo e radicato “desiderio di riconnettersi alla propria costellazione familiare”, l’autrice dice benissimo di quella tipica vitalità ebraica che è la continuità delle Toledot, in una relazione esemplare tra memoria e futuro:

“In questa turba di cercatori, i figli, i nipoti, i pronipoti della Shoah, lo so per esperienza, per quello che sento, per quello che leggo, sono numerosi e tenaci. Per un popolo che ha attraversato i millenni e non si è estinto grazie a un elemento immateriale chiamato memoria, e ha un’attitudine costante a trasformare il vissuto in racconto, perdere un anello della catena delle generazioni, lasciare un vuoto nella narrazione, non mantenere il ricordo di chi non c’è più significa tradire se stessi, venir meno a un modo di pensare che, ognuno a suo modo e con gradazioni diverse, ha assorbito dalla tradizione, dall’educazione, dalle letture.”

In un piccolo, tranquillo albergo di Jaffa, l’incanto del loro primo incontro.
Sono “due sconosciute cittadine europee che, se la vita non fosse andata come è andata, sarebbero due cittadine israeliane, con una lingua, un vissuto, dei fondamentali punti in comune, forse più simili tra loro che non ai loro genitori originari del vecchio continente.” (p. 121)
Invece, le due cugine parlano lingue diverse,provengono da mondi diversi, hanno vissuto da lontano la travagliata storia della patria ebraica. Patria riconosciuta e amata in un’incontenibile onda emotiva.

“Lei (Daphna) mi dice che era in viaggio in Israele a maggio, proprio nei giorni in cui si ricordano tutti i caduti delle guerre di Israele e la fondazione dello Stato. Sono due giorni consecutivi, emotivamente forti, il primo di lutto e il secondo di gioia, lo so, è capitato anche a me di esserci. A un’ora prestabilirà suonano le sirene, tutto il paese si ferma, cade un silenzio assoluto, segno di un raccoglimento non formale, e il giorno seguente si sfila con le bandiere, si canta e si balla. Ognuno in questo paese ha qualche caro da ricordare, ognuno sa che l’esistenza di Israele è un sogno realizzato con un costo altissimo, dopo quasi duemila anni.”

La narrazione rappresenta diverse figure di parenti, intermediari, traduttrici che hanno agito per l’agnizione e l’incontro desiderato tra le due cugine.
Situazione sorprendente, dove Miriam considera che “forse perché i figli dei gemelli sono più cugini dei figli di fratelli… Forse perché sono padri di cui non abbiamo mai sentito la voce, padri a cui non ci siamo mai ribellati. Forse perché la loro vita si è interrotta nell’età che anche i nostri figli hanno passato da un pezzo e loro restano per noi sempre giovani, travolti dagli eventi, bisognosi di comprensione.”

Caduti, belli e giovani, sottratti alle loro famiglie per aver dato la vita alla grande famiglia di Israele.
“ZAKHOR! Ricorda! È un imperativo, un obbligo per gli Ebrei e noi lo abbiamo onorato, insieme, prima in Israele, il paese che Heinz e Gughi hanno contribuito a creare, e ora a Berlino.”

Così l’autrice ha creato per noi lettori un mondo intero di passione, di gioie intense e di dolori sconvolgenti, di persone singolari, di storie personali e familiari che dicono della storia di un popolo esemplare.

Questa storia di intensa memoria familiare mi ha coinvolto. Così mi viene in mente che le mie due nipoti di Roma mi hanno chiesto di scrivere una storia della nostra famiglia. Ora lo farò, grazie a Miriam.
Grazie, Miriam.

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