
di Francesco Speroni*
C’è chi ha la vocazione per la diplomazia, e poi c’è Francesca Albanese, che sembra aver fatto domanda all’ONU per fare l’attivista — e dev’essere stata assunta per errore. Teoricamente, il suo incarico di Relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui Territori palestinesi occupati richiederebbe imparzialità, competenza giuridica, equilibrio. Praticamente, sembra una portavoce di Hamas in tailleur.
Ma lasciamo da parte i giudizi e atteniamoci ai fatti. Verificabili. Pubblici. Ed è proprio lì che cominciano i problemi. Nel 2015, Massimiliano Calì, economista della Banca Mondiale nonché marito della signora Albanese, pubblica uno studio che avrebbe fatto sobbalzare sulla sedia qualunque relatrice minimamente seria: “Higher wages, more violence?”. La conclusione è lampante: aumenti salariali nei territori palestinesi sono correlati a un incremento della violenza. Perché? Un’ipotesi molto credibile è che parte di quei salari venga dirottata verso le milizie armate. Insomma, più soldi = più Kalashnikov = più “resistenza”. Ma che fa la relatrice dell’ONU? Silenzio tombale. Neanche una nota a piè di pagina, neanche un’imbarazzata mezza frase. Come se quello studio non esistesse, o come se l’autore fosse un perfetto sconosciuto.

Albanese si erge paladina dei diritti umani contro il “genocidio”. Ma solo per alcuni. Le donne israeliane stuprate e bruciate vive il 7 ottobre 2023? Non pervenute. Gli ostaggi civili, neonati, anziani? Silenzio assoluto. Gli omosessuali impiccati da Hamas? Meglio non parlarne. E dire che molte persone LGBT palestinesi, per sfuggire alla persecuzione e alla morte, chiedono asilo proprio in Israele. Il paradosso è tragico — ma, a quanto pare, non abbastanza utile alla narrazione dell’Albanese da meritare menzione. La repressione degli oppositori interni a Gaza? Non è il momento. Al contrario, i miliziani armati che uccidono civili israeliani diventano “resistenti”. Con una naturalezza ideologica che non si vedeva dai tempi degli Anni di Piombo.
Il mandato dell’ONU impone alla relatrice di agire con “indipendenza, equità e imparzialità”. Parola, quest’ultima, che a lei provoca orticaria. In realtà, Albanese partecipa a eventi con ONG schierate, alcune delle quali accusate da Israele di avere legami indiretti con Hamas (come Addameer e Al-Haq, entrambe inserite nella lista nera stilata nel 2021 dal Ministero della Difesa israeliano per i loro legami con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, organizzazione terroristica). E non si limita a presenziare: le promuove, le difende, le rilancia sui social. Più che una relatrice, una testimonial.
Nella Palestina che lei immagina esistere solo come vittima sacrificale, non esistono corrotti, tiranni, oligarchi locali. Non una parola sulla corruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, nonostante i rapporti ufficiali — inclusi quelli europei — che documentano la sistematica distrazione dei fondi pubblici verso conti opachi e strutture non dichiarate (spesso, di nuovo, milizie). L’ANP riceve miliardi in aiuti: sanità e scuole restano al collasso, ma la colpa è sempre di Israele. Una linea editoriale coerente, bisogna riconoscerlo.
E poi ci sono le testimonianze dei civili palestinesi stessi, che raccontano come Hamas intercetti gli aiuti umanitari, li sequestri, e poi li rivenda alla popolazione — facendo mercato di viveri, acqua e medicine destinati ai disperati. Quando Israele riesce a farli arrivare direttamente, senza intermediari armati, la gente resta sorpresa: “Non ci era mai capitato di ricevere questi aiuti senza doverli pagare”. Anche questo, ovviamente, non rientra nella narrazione dell’Albanese. Non fa comodo. Quindi non esiste.
Albanese ama il diritto internazionale. Lo cita, lo coccola, lo sventola come una bandiera. Ma lo fa a senso unico. L’articolo 51 della Carta ONU, che garantisce il diritto all’autodifesa di Israele, scompare come una fata distratta. Le Convenzioni di Ginevra? Esistono solo per giudicare Israele, mai Hamas. I crimini di guerra del 7 ottobre? Derubricabili ad azione armata non convenzionale, che altro sennò?
Nel 2022, viene richiamata dall’ONU stessa per alcuni suoi post social in cui parlava di “lobby ebraica” e “colonialismo ebraico”. Lei si difende parlando di “stralci decontestualizzati”. Ma quando si usano termini come quelli non c’è molto da decontestualizzare. L’antisemitismo resta antisemitismo, anche se pronunciato in stile shabby chic, coi capelli brizzolati e voce da seminario ONU.
Francesca Albanese non ha mai riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele come Stato ebraico, un diritto esplicitamente sancito dalle Nazioni Unite nel 1947 con la Risoluzione 181. Nel suo vocabolario, esiste solo la “Palestina storica”, entità nebulosa e sognante, da ripristinare integralmente, possibilmente cancellando ogni presenza israeliana. Ma attenzione: lei non vuole distruggere Israele. Vuole solo che scompaia con eleganza.
Francesca Albanese è un’attivista militante che usa l’ONU come megafono per un’ideologia a senso unico, piena di contraddizioni, omissioni, doppi standard. E mentre il marito analizza dati economici che mostrano come i soldi possano finanziare la guerra, lei li ignora. E mentre il mondo chiede giustizia per tutte le vittime, lei ne vede solo metà.

Ma Francesca Albanese, in fondo, non ha inventato nulla. Il suo predecessore, Michael Lynk, giurista canadese, si muoveva sulla stessa linea: attacchi ripetuti a Israele, accuse di apartheid, rapporti unilaterali. Un comportamento talmente sbilanciato da spingere persino il governo canadese a prendere le distanze dalle sue esternazioni. Ma almeno Lynk conservava un certo tono accademico. Albanese, invece, ha alzato il volume e abbassato la soglia del ridicolo: più social, più militanza, più retorica, più propaganda.
Il vero problema sono le Nazioni Unite, che da anni permettono — anzi: organizzano — tutto questo. Lynk e Albanese non sono corpi estranei. Sono strumenti perfettamente integrati in un meccanismo che ha smesso di cercare la verità e si è trasformato in un ring ideologico, dove Israele è sempre il colpevole e Hamas nemmeno l’imputato. Altro che Nazioni Unite. Qui si tratta di Nazioni Divise, ma con un solo guantone da boxe che, guarda caso, colpisce sempre lo stesso bersaglio.
Francesca Albanese sanzionata dagli Stati Uniti
Il 9 luglio 2025, il governo degli Stati Uniti ha ufficialmente imposto sanzioni contro Francesca Albanese. L’annuncio è stato fatto dal segretario di Stato americano Marco Rubio. Le accuse rivolte ad Albanese riguardano il suo coinvolgimento in iniziative giudiziarie internazionali contro cittadini israeliani e statunitensi, in particolare il sostegno attivo a procedimenti per presunti crimini di guerra presso la Corte Penale Internazionale. Il governo americano ha definito le sue azioni una forma di “guerra politica ed economica ostile”.
Le sanzioni prevedono: blocco totale di beni e fondi riconducibili ad Albanese negli Stati Uniti; divieto d’ingresso sul suolo americano per lei e i suoi familiari diretti. È la prima volta nella storia che un relatore speciale delle Nazioni Unite viene formalmente sanzionato dagli Stati Uniti.
Chi oggi si scandalizza per questa decisione, dovrebbe invece fare una cosa molto semplice: leggere i suoi post e le sue interviste, ascoltare i suoi discorsi, analizzare i suoi rapporti. Albanese non è una relatrice, è una militante. Non è una giurista, è un’ideologa. Non è imparziale, è faziosa. E questo basta. E avanza.
*Francesco Speroni fino a pochi anni fa ha svolto l’attività di cameraman e editor. È stato documentarista d’arte per poi dedicarsi, a partire dal 2005, alle news, trasferendosi in Israele dove vi rimane quasi cinque anni lavorando soprattutto per Rede Globo. Dopo questo intenso periodo, si trasferisce prima in Giordania, poi nelle Filippine, dove vi rimane alcuni anni lavorando nella produzione cinematografica.
E’ il Coordinatore per la Versilia della Associazione Apuana Amici Italia Israele.
Ottimo intervento per ristabilire un minimo dininformazione su colei che con un incarico UN ne fa uso per divulgare il lessico e il progetto jihadista