Il bando americano a Francesca Albanese sta sollevando un vespaio di polemiche. Gli americani sono imperialisti, gli israeliani, ça va sans dire, uccidono i bambini – accusa strutturalmente legata ai tragici stereotipi antisemiti medievali dell’accusa del sangue -, e la lettura pubblica che ne consegue è che la rapporteur italiana paghi per le sue posizioni scomode e indipendenti. Ma Francesca Albanese è veramente indipendente?
In realtà, non lo è. Ma non basta criticare la parzialità delle sue affermazioni. Sarebbe fondamentale spiegare all’opinione pubblica occidentale come la rapporteur sia espressione di un milieu politico-ideologico sostenuto e funzionale agli interessi di regimi illiberali. Regimi che non hanno nessun reale interesse nella protezione del diritto umanitario, e che se ne servono, invece, come strumento tattico nell’ambito di una vera e propria guerra cognitiva, che punta ad enfatizzare la natura imperialista e aggressiva dell’Occidente. In realtà, se è astrattamente e moralmente giusto augurarsi che il diritto internazionale prevalga sui rapporti di forza, da alcuni anni, le democrature sembrano molto più a loro agio nello sfruttare gli strumenti di soft power, incluso il lawfare, che è un termine con il quale si definisce l’utilizzo politico dei sistemi giuridici.
Il caso palestinese ne è un chiarissimo esempio, perché c’è la massima attenzione verso ogni presunta violazione di Israele, mentre le violazioni di Hamas e dei suoi dante causa non sono oggetto di inchieste e report.
Paradossalmente, filtrano da Fanpage notizie relative a probabili tentativi di Israele di collocare in cima alle ricerche di Google, con qualche sponsorizzazione, le notizie più critiche relative alla rapporteur, mentre sui media italiani sono completamente assenti le informazioni relative ai milioni di dollari attraverso i quali il Qatar cerca di imporre una narrazione ideologicamente affine ai suoi interessi, di cui Albanese è megafono più o meno consapevole.
L’esperta italiana, di fatti, non è una voce isolata: è parte di un ecosistema ideologico e finanziario che ha come epicentro il Qatar, e che si estende attraverso think tank come ARDD, università come Georgetown, e reti intellettuali che promuovono una narrazione decoloniale e antioccidentale. Il Qatar ha versato oltre 4,7 miliardi di dollari alle università americane tra il 2001 e il 2021, diventando il principale finanziatore straniero dell’accademia statunitense. Solo alla Georgetown University in cui opera Albanese, ha donato 760 milioni di dollari, in cambio dell’apertura di un campus a Doha e della promozione di studi su Islam, politica e Medio Oriente. Questi fondi hanno sollevato preoccupazioni sulla libertà accademica, sull’influenza ideologica e sulla crescita dell’antisemitismo nei campus.
Francesca Albanese è Affiliate Scholar presso l’Institute for the Study of International Migration (ISIM) di Georgetown dal 2015, e Senior Advisor per ARDD, dove ha co-fondato la Global Network on the Question of Palestine (GNQP). ARDD, pur non essendoci prove di finanziamenti diretti dal Qatar, è ideologicamente allineato con la sua agenda. Questo è il soft power, cioè un potere indiretto e di influenza.
Georgetown, ARDD e Albanese formano un triangolo strategico che amplifica la narrazione del Qatar: Israele come stato genocidiario, l’Occidente come potenza imperialista, e la Palestina come simbolo della resistenza globale. A raccontare al mondo tutto questo, ci pensa Al Jazeera, altro strumento legato al governo qatariota.
In questo quadro, il pensiero di Albanese — ispirato a Frantz Fanon e alla sinistra terzomondista — diventa compatibile con l’ideologia islamoconservatrice del Qatar, generando un ibrido ideologico che potremmo definire islamoguevarismo: una retorica apparentemente progressista, ma funzionale a un disegno di potere autoritario e conservatore.
Il bando imposto dall’amministrazione Trump, che ha incluso Albanese nella lista dei “specially designated nationals”, arriva dopo le sue pretestuose accuse a Microsoft, Amazon e Alphabet di trarre profitto dalla “economia del genocidio” in Gaza. USA, Israele e Gaza, invece, trarrebbero molte più risorse dalla pace e dallo sfruttamento delle risorse energetiche nel Levantine basin, e con il completamento del corridoio IMEC, con Arabia Saudita e India, ma questo probabilmente Albanese non lo sa e sicuramente non farebbe piacere a Qatar, Iran e Cina.
Ma il bando americano è anche una risposta a decenni di infiltrazione ideologica nei campus americani, dove il Qatar ha costruito una rete di influenza che ha terremotato la democrazia liberale dall’interno. Le università, in cambio di fondi, hanno normalizzato narrazioni radicali, tollerato l’elogio di Hamas e ignorato le violazioni dei diritti umani nei paesi donatori. Albanese, con il suo ruolo accademico e istituzionale, non è una semplice ricercatrice: è una pedina di questo soft power, che usa il linguaggio dei diritti per delegittimare l’Occidente e legittimare l’agenda geopolitica di Doha. Gli americani, maestri anche loro di soft power, dopo aver tollerato per anni questo andazzo, hanno deciso di cambiare approccio.
Il punto è che la geopolitica regionale del Qatar, ispirata alla diffusione nel Medio Oriente dei valori della Fratellanza musulmana, fortemente ostile ai regimi moderati e alle monarchie del Golfo, a livello globale si è saldata al pensiero decoloniale neomarxista, sostenuto dai Brics. Una visione di parte e ideologica perché impegnata a denunciare solo le violazioni dei diritti umani dell’Occidente, il suo colonialismo, mentre tace su casi analoghi e ben più numerosi perpetrati dalle democrature, dalla repressione degli uiguri in Xinjiang, a quella di cristiani e sciiti perpetrati dai movimenti islamisti utilizzati da Doha.
E’ in questo scenario che Francesca Albanese, con le sue idee relative alla genesi coloniale di Israele, è chiaramente di parte.
L’incapacità di Israele o degli USA di fare filtrare queste informazioni è invece prova che hanno abbondantemente perso la battaglia cognitiva lanciata loro dal Qatar e dalle altre democrature.
A riprova che il complotto giudoplutocratico è una fandonia. Ma per un Occidente paternalisticamente abituato a credere che il Global South sia il proletario sfruttato dal capitalismo, questa verità è difficile da credere.
A.P.