di Ester Soramel

Dopo aver letto le atroci barbarie commesse dai carcerieri russi sulla reporter ucraina Viktoriia Roshchyna ci si sente esattamente nello stato in cui è stato restituito il suo corpo: svuotati. Scomparsa nell’agosto del 2023 nei territori occupati dalla Russia, è stata identificata solo recentemente grazie al test del DNA.
In un macabro scambio di cadaveri di qualche mese fa, i russi hanno reso agli ucraini un sacco con sopra l’etichetta “corpo 757, maschio non identificato”, mummificato, irriconoscibile, privo di svariati organi interni, quali cervello, bulbi oculari e parte della trachea, oltre a segni di torture, come strangolamento, abrasioni, costole rotte e segni di scosse elettriche.
Non è stata “solo” uccisa. E’ stata disumanizzata.

(Viktoriia Roshchyna)

La memoria torna al 7 ottobre e allo scempio commesso dai terroristi di Hamas sulle donne israeliane, stuprate, torturate, dilaniate e fatte a pezzi in diretta social, alla restituzione dopo 16 drammatici mesi dei corpicini martoriati dei fratelli Bibas in casse chiuse a chiave, ma delle quali non sono state consegnate le chiavi, unitamente ad un’altra bara nella quale è stato fatto credere come un macabro scherzo che ci fosse la loro mamma, invece era il cadavere di un altro ostaggio. Negata pure la minima pietas di riunire una madre ai suoi figli nel tragico rito della riconsegna dei loro resti.
Dal Ratto delle Sabine alle guerre mondiali sino a quelle in corso, i corpi delle donne continuano ad essere oggetto della più cruenta profanazione. Le Nazioni unite, negli anni, hanno tentato di redigere delle stime che, pur certamente incomplete per l’oblio dettato dalla vergogna delle vittime, dimostrano comunque quanto lo stupro e la violenza sulle donne durante la guerra sia una delle principali armi di eserciti militari e non: due milioni nell’Europa del secondo conflitto mondiale, tra 250mila e 500mila donne nel genocidio in Ruanda del 1994, oltre 60mila nella guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), fino a 50mila negli anni ’90 in Bosnia, almeno 200mila in Congo dal 1996 in avanti, fino all’abuso di massa più ideologicamente teorizzato e ancora in corso, ossia quello delle donne ezide della regione irachena di Shengal, ridotte in schiavitù e passate di mano in mano pubblicamente e senza soluzione di continuità dai miliziani del cosiddetto Stato islamico.
Lo scopo è sempre lo stesso: annientare il nemico disumanizzando le donne, occupandone il corpo o svuotandolo, come nel caso della giornalista ucraina, così da annullare simbolicamente i legami familiari e sociali di un popolo. Perché colpire la donna vuol dire colpire chi dà la vita.
Lo scempio su Viktoriia Roshchyna ne è una terrificante conferma: le sono stati tolti i bulbi oculari rea di aver visto; le è stato tolto il cervello rea di ragionare; le è stata tolta parte della trachea rea di respirare; infine le è stata tolta l’identità per affibbiarle un numero ed è stata infine privata del suo genere, perché etichettata come “maschio”.
Si impone come urgente una presa di coscienza collettiva proclamando la Giornata mondiale contro gli stupri e i femminicidi di guerra, che potrà essere fissata solo il 7 ottobre, visto che quel giorno si è consumata la più disumana violenza di genere di massa della storia contemporanea. E sommessamente si invita la giuria del Premio Terzani a dedicare il premio a tutti i giornalisti e tutte le giornaliste vittime di guerra, non soltanto a quelli e quelle di Gaza, salvo commettere una discriminazione incomprensibile, soprattutto dopo quello che ha subito Viktoriia Roshchyna, torturata fino alla morte e vilipesa anche dopo per la professione che con coraggio svolgeva.

One thought on “Da Mosca a Gaza, quante atrocità sulle donne

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