di Alessandro Sebastiano Citro*

L’Associazione Italia Israele di Cosenza (presieduta da Lucia De Fiore) organizza l’11 aprile la presentazione dell’ultimo libro di Miriam Jaskierowicz Arman, “L’urlo dell’anima”. Un’opera in cui si intrecciano poesie liriche e riflessioni in prosa che viaggiano congiuntamente sulle linee del ricordo, della memoria e della speranza, delineando un quadro esistenziale il cui centro tematico è quella traccia di continuità e contiguità tra i sommersi e i salvati, tra chi ci ha preceduto, noi sopravvissuti e coloro che ci seguiranno nel cerchio misterioso e insondabile della vita. E proprio la riflessione poetica e lirica di Miriam Jaskierowicz sulla inesplicabilità della vita, della propria personale e di quella universale, dà sostanza alle poesie e ai componimenti in prosa che si susseguono nelle pagine fitte del libro, componendo un discorso esistenziale che abbraccia sempre la religione e la fede e si dilunga e sfocia in innumerevoli passaggi nel discorso teologico e mistico.

Il punto di partenza tematico del libro consiste nel generale smarrimento esistenziale della protagonista dovuto alla condizione ereditaria della storia ebraica ma anche alla condizione personale di essere la figlia di una coppia sopravvissuta all’Olocausto – sposatasi nel campo nazista di Bergen Belsen un mese dopo la liberazione – che sente, così come tantissimi altri eredi e testimoni, profondissimamente il peso di una dichiarazione di dolore ma anche di speranza da dover condividere con gli altri esseri umani tramite le parole. E questa condivisione inderogabile e ossigenante avviene con l’esplosione fonica delle parole che è richiamata nel titolo del libro, un urlo, un urlo che non è soltanto deflagrazione sonora e anarchica del dolore e del mistero ma che si compone invece nelle equilibratissime strutture linguistiche, sintattiche e lessicali del libro, stupefacente, oltretutto, visto che Miriam non è di lingua madre.

In molte delle liriche quella richiesta di verità e di pace viene espressa percussivamente con le domande di senso della nostra vita, quei perché e interrogativi a risposta aperta che non ci daranno mai consolazione definitiva ma che ci inducono parimenti ad allargare il nostro spettro meditativo fino agli orli del cielo e del mistero, della fede e della mistica, fino al nostro essere più profondo dell’anima, quella stessa anima che urla, viaggia, esplode, si eleva, ascolta, parla così come più volte viene descritto nel testo poetico. Altre volte la costruzione sintattica delle poesie si struttura sulla sola ripetizione sostantivale oppure sulla catena salmodiante del sostantivo+ l’aggettivo e altre ancora sulla reiterazione dei modi verbale – infinito o gerundio – con l’intento necessario di rimarcare e replicare in maniera perentoria i concetti centrali e insostituibile delle strofe poetiche. La replicazione anaforica interrogativa – che spesso si incontra a inizio verso – ribadisce quella sospensione tematica di sperdimento e di dolore che diventa cronologicamente immutabile e che viaggia indifferentemente dagli eoni degli eoni senza che ciò comporti mai una resa da parte della autrice nei confronti insondabile del mistero del Male.

(Miriam Jaskierovicz Arman)

La voce di Miriam dialoga ininterrottamente con D-O tessendo una struttura discorsiva ininterrotta che contesta, protesta, proclama, apostrofa, ribadisce ma alla fine ricerca sempre la ricomposizione emotiva nell’alveo della benedizione e pacificazione con D-O possibilmente in un luogo irenico e biblico “una terra fertile e spaziosa dove scorre latte e miele”. In questo modo Miriam Jaskierowicz Arman si situa in una linea di riflessione teologica femminile che si snoda da Anne Bradstreet continuando per Emily Dickinson fino a Louise Gluck, Nobel per la Letteratura nel 2020. Ma la pista tematica del libro non è costituita soltanto dal dialogo incessante e vibrante con D-O, ma diventa invece naturalmente una linea binaria in cui l’autrice vive anche la sua dimensione di creatura che si relaziona nelle varie forme del suo essere una figlia, una mamma – purtroppo derubata dall’affetto filiale -, una amante e una amata, in carne e ossa, nell’apprezzamento dei colori e dei suoni degli odori dell’universo, nella contemplazione del mondo come giardino terrestre, nella meditazione estatica del bello e del bene. Tuttavia si ritorna sempre alla eterna riflessione e relazione dell’autrice con il mistero di un Dio che permette al Male di schierarsi con i suo angeli della morte a fianco degli uomini, gli stessi che scelgono il Male invece del Bene e inondano di buio il cuore umano. Il Male millenario della esperienza ebraica che da popolo scelto ed eletto da Dio ha dovuto da sempre e sempre affrontare l’odio e il dolore di questa condizione umana. Una condizione teologica che Miriam sente profondamente e che esprime potentemente nelle sue dichiarazioni personali faccia a faccia con il Divino, senza arretrare di fronte ai suoi silenzi rispettando quel monito da bambina “ricordati, non aver mai paura”. E allora l’ascolto delle onde del mare rievoca il lenitivo canto dei salmi che ribalta il sipario dei pensieri di morte e di angoscia dando all’opera di Dio perfezione e grazia. Dio diventa guida, sostegno, incoraggiamento, Colui che dà la Voce e le parole che sopravviveranno per sempre.

*Docente

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