Reportage di Giuseppe Crimaldi

Viaggio nel Paese delle opportunità. Dove nessuno viene lasciato mai indietro
PRIMA PARTE: INCLUSIONE E SOLIDARIETA’
Israele, un modello di innovazione, integrazione e solidarietà. C’è sempre molto più da imparare dall’esperienza diretta che non dalla lettura di cento saggi. Cinque giorni in Israele, una full immersion nella realtà economica, scientifica e sociale del Paese che guarda sempre al futuro in una linea d’orizzonte mai stata così ampia.
Israele, una nazione nata solo 77 anni fa eppure costantemente proiettata verso il benessere collettivo: un’immagine che nessuna propaganda, nessuna odiosa campagna di odio e quasi sempre intrisa di malafede potrà oscurare. Bisogna approcciarsi senza pregiudizi a questa realtà, a chi sa affrontare le sfide del cambiamento.
Pensateci: una nazione e un popolo che solo dal 1948, dalla sua data di nascita, hanno dovuto combattere quattro guerre; e che altrettante, dal 1987 ad oggi, ne ha dovuto affrontare. Contro nemici infidi e spietati. Ma qui non si dorme sugli allori. Mai.
Innovazione e inclusione, due facce della stessa medaglia. Nei giorni scorsi ho avuto il privilegio di partecipare con una qualificata delegazione italiana ad una trasferta del ministero degli Esteri di Gerusalemme che mi ha fatto capire bene dove stia andando il Paese, con insaziabile voglia di modernità, progresso, conquiste nel campo della ricerca e di integrazione. Ed è stato importante toccare con mano, verificare che sono più che mai vivi i sentimenti legati ad un’integrazione sociale che viene invece occultata dai media, dai filtri del pregiudizio e da un neo-antisemitismo sdoganato sotto le false spoglie dell’antisionismo.
Perché questo è il Paese che non lascia indietro mai nessuno e che sa valorizzare il merito.
In Italia e nel mondo una formidabile propaganda ci ha inondati di menzogne, disegnando Israele come uno Stato di Apartheid. Questo viaggio, se ve ne fosse stato bisogno, mi ha convinto del contrario.
Per far crollare questa montagna d’odio e disinformazione tutti dovrebbero varcare la soglia dello “Shalva Center”, il centro più grande e avanzato per l’inclusione e l’assistenza alle persone con disabilità. Costruito su un dolce declivio a pochi minuti dal centro di Gerusalemme, dal 2016 “Shalva” accoglie e cura migliaia di persone con disabilità offrendo programmi di riabilitazione e supporto.

Oltre le vetrate dell’ingresso volano enormi farfalle di cartone dai colori sgargianti: il simbolo della libertà , della gioia che sprona bambini di ogni età (ma anche non pochi maggiorenni) con disabilità fisiche o mentali a entrare qui senza paura, in questo centro di recupero che proprio delle tavolozza cromatica fa la propria “filosofia” terapeutica. L’edificio infonde dunque ispirazione e speranza. E scopriamo che la stragrande maggioranza di pazienti che vengono curati appartengono proprio a famiglie arabe: è questa apartheid?
A realizzare questo vero miracolo di inclusione e riabilitazione ci sono Lewis Bloch, Fernando Bisker e Yochanan Samuels. Un teatro, aule, spazi comuni, laboratori, persino un campo di basket e una piscina olimpionica sono solo una parte delle attività: da “Shalva” sono già usciti centinaia di ragazzi e ragazze che oggi, superati gli handicap, hanno anche un lavoro: assistenti di sostegno, insegnanti nell’asilo nido riabilitativo, persino sous-chef e guide turistiche.


A due ore di macchina, più a sud, c’è un altro centro di eccellenza medica, lo “Harvey and Gloria Kaylie Medical Center- ADI”. Settantadue posti letto suddivisi in reparti di riabilitazione ortopedica e neurologica.

Nei corridoi e negli spazi all’aperto è facile incrociare non solo molti giovani soldati rimasti feriti durante la guerra, ma anche bambini, giovani e anziani. Anche qui molti pazienti sono arabi: anche qui – come allo Shalva – non si fanno discriminazioni, ed anzi la convivenza tra ebrei e arabi si rafforza nella consapevolezza di condividere anche le proprie malattie. Un centro di eccellenza assoluta, specializzato in fisioterapia, idroterapia, terapia occupazionale e della comunicazione e molto altro.
Ma torniamo a Gerusalemme. Nella parte Est, percorrendo un viale alberato si raggiunge un edificio anonimo nel quale si sperimenta un progetto importante: quello di “Honey Women”, iniziativa di socializzazione nella comunità di Musala. Le protagoniste di questa sfida puntano a garantire occupazione e assistenza a giovani donne arabe senza lavoro. Tenete presente che oltre l’80% dei residenti di Gerusalemme Est vive in stato di semipovertà, sovraffollamento e disoccupazione: più del 75% delle donne non hanno un lavoro stabile. Oggi, grazie all’intervento del ministero del Commercio e dell’Economia il governo israeliano sostiene un progetto che sta formando 500 donne nell’apicultura.

Qui, dall’arnia fino al vasetto, viene prodotto un miele biologico buonissimo. Un’esperienza che dimostra come soprattutto tra le donne arabe ci sia bisogno di empowerment, di disporre di più potere decisionale e consapevolezza su sé stesse e sulla propria esistenza, sviluppando risorse, competenze e fiducia per affrontare le sfide e raggiungere obiettivi concreti. Era il 2019 quando 15 giovani ragazze decisero di salire sul tetto dell’unica biblioteca pubblica di Gerusalemme Est per sperimentare un corso di apicultura biodinamica. “Attività che ci ha fornito gli strumenti per guadagnarci da vivere dignitosamente a casa”, spiega una delle organizzatrici. Risultato: il progetto del miele sta riscuotendo successo e ha creato una rete di “apicoltori” sui tetti, sui balconi e nei cortili di Gerusalemme Est. Così si forgia anche una classe di donne imprenditrici, tutte arabe. E’ forse anche questa apartheid?
Da Gerusalemme a Haifa, che è forse la città israeliana più inclusiva, dove la pacifica convivenza tra religioni e genti di diverse culture è diventata norma.

Qui non albergano odio e violenza. Su una ripida strada che guarda verso i lussureggianti giardini terrazzati di Bahai – ai piedi del Monte Carmelo – operano i volontari della “Beit Hagefen”: più che un laboratorio di idee ma anche un prisma magico capace di riflettere creatività ed attività culturali che vedono protagonisti arabi ed israeliani. Ed ecco che tecnica e fantasia si incontrano in un meraviglioso tappeto fatto solo di spezie.

Ci sono una libreria per bambini e ragazzi, un corso di formazione culturale espressamente dedicato ai giovani arabi, un teatro dove vanno in scena opere scritte e interpretate da giovani attori arabo-israeliani, ed ancora aule e laboratori dove si sviluppa la creatività che poi confluisce in mostre d’arte interessantissime. Aria pulita di convivenza e di pace.
E poi ci sono loro, i drusi. Incontriamo Koftan Halabi, uno dei vertici più rappresentativi di questa comunità fiera e orgogliosa, perfettamente integrata nel paese e nella società israeliana. Sebbene costituiscano poco meno di un decimo degli arabi israeliani, ci spiega, gli uomini servono nelle Forze di Difesa Israeliane integrandosi profondamente nell’esercito e nelle forze di sicurezza, spesso anche in unità di combattimento d’elite. Al punto che in molti di loro raggiungono anche alti gradi nelle gerarchie militari.

Halabi spiega che Israele non ha mai perseguitato – e tanto meno discriminato – la popolazione drusa; ricorda il prezzo alto che questa comunità ha dovuto pagare, e continua a pagare (si pensi alle atroci violenze scatenate dalle milizie siriane solo qualche mese fa con esecuzioni sommarie, rapimenti e violenze che non hanno risparmiato nemmeno donne e minori), e i suoi occhi diventano lucidi quando si ricorda la strage dei bambini falciati da un missile lanciato la sera del 27 luglio del 2024 da Hezbollah su un campetto di calcio nel villaggio druso di Majdal Shams. Tra le attività svolte dal centro diretto da Halabi c’è un progetto molto importante, e anche qui si parla di inclusività: è quello che offre ad alcuni giovani drusi che hanno terminato i tre anni nell’Esercito l’accompagnamento al lavoro. Altro che apartheid.
E che Israele sia il paese dell’accoglienza e dell’apertura lo dimostra l’incontro con i rappresentanti dell’ “Unistream Center”, una rete di centri di imprenditorialità giovanile in Israele, focalizzati sul mentoring, l’innovazione e l’empowerment, che unisce giovani da diverse comunità (ebrei, arabi, beduini); e che incoraggia background internazionali, offrendo programmi di sviluppo di idee imprenditoriali, partnership con aziende e preparazione a concorsi, con l’obiettivo di promuovere l’integrazione e l’impatto socio-economico.

Nello stesso giorno in cui abbiamo visitato il centro c’erano 40 giovani donne e uomini provenienti da una decina di nazioni africane e quattro delegazioni dell’Estremo Oriente: tutti hanno seguito corsi di formazione che arricchiranno – una volta rientrati a casa – il loro percorso di vita. Insomma, non c’è partita: solidarietà batte apartheid 60-0/6-0. Gli odiatori seriali se ne facciano una ragione.
(Fine prima parte/segue: Innovazione, la Startup nation)

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