di Claudio Velardi*

“Poniamo, per assurdo, che abbiano ragione loro. Che le accuse più folli rivolte a Israele da professionisti dell’indignazione, attivisti da corteo e pacifisti a senso unico, siano tutte vere. Poniamo che Israele abbia pianificato lo sterminio sistematico dei palestinesi. Che l’esercito israeliano spari volontariamente ai bambini, alle madri, ai civili inermi. Che impedisca l’arrivo di acqua e cibo per affamare un intero popolo. Che distrugga ospedali, ambulanze, scuole. Che colpisca deliberatamente i giornalisti per impedire che si racconti la verità. Che abbia come obiettivo finale non la difesa, ma la pulizia etnica di Gaza. Che tutto questo sia parte di un piano sionista, coloniale, razzista, suprematista. Che Israele sia uno Stato canaglia, un regime di apartheid, una reincarnazione contemporanea del nazismo. Che Netanyahu sia un criminale peggiore di Putin o di Hitler.

Tutte cose scritte, dette, urlate nei cortei, affisse sui muri delle università, dei negozi e dei luoghi di lavoro.
Poniamo che i fatti siano questi, abbracciando senza vergogna l’intera impalcatura accusatoria dell’anti-
israelismo più radicale. Poi proviamo a chiederci che rapporto c’è tra ogni possibile nefandezza di Israele e il fatto che un bambino ebreo con la kippah non viene fatto entrare in una piscina pubblica in Francia. O
che una donna ebrea viene aggredita per strada a Berlino, con l’urlo “assassina”. O che aumentano i ristoranti che rifiutano clienti “sionisti”, ovvero ebrei. Che le sinagoghe vengono vandalizzate, le scuole ebraiche sono presidiate dai militari, nelle università si consiglia agli studenti ebrei di restare a casa per “evitare tensioni”. O che in un autogrill vicino Milano, un uomo e suo figlio con la kippah sono stati aggrediti verbalmente e fisicamente al grido di “Free Palestine” e “assassini”.
Ora, chi mette in atto comportamenti del genere pensa davvero di star combattendo Netanyahu? A
meno che non li si ritenga tutti degli strateghi raffi nati, è evidente che chi compie questi atti non sta colpendo uno Stato. Sta colpendo un’identità.
Non si sta opponendo a una politica, ma a un popolo. A una storia. A una memoria. Sta dicendo: “Tu sei ebreo, dunque sei colpevole. Dunque sei il nemico”. E quindi sta — più o meno consapevolmente — adottando l’antisemitismo come approccio, come attitudine profonda, come una propria intima forma mentis.
Questo antisemitismo quotidiano, ordinario, apparentemente spontaneo, è molto più pervasivo e tossico
di quello ideologico, organizzato, teorizzato. Peggiore dell’odio freddo di chi scrive che Israele non ha diritto a esistere, che la terra va restituita “dal fiume al mare”, che il progetto sionista è criminale in sé. Perché chi grida queste cose — per quanto deliranti — almeno finge di combattere un’idea.
Ma chi caccia un padre e un bambino da un bar, chi insulta una donna ebrea in metropolitana, non combatte un’idea: proietta su una persona, su un volto, su un nome, una quota di odio atavico, ancestrale, irrazionale. Gli editorialisti che girano la faccia dall’altra parte e gli untorelli politici che seminano odio, dovrebbero sapere che stanno davvero giocando con il fuoco. Se nel 2025 l’antisemitismo
diventa diffuso e fisiologico, manifestandosi nei gesti comuni, nei linguaggi del quotidiano, nei riflessi
della cosiddetta gente normale; se diventa un’abitudine sociale, un automatismo culturale, un odio che
non si annuncia ma si pratica, significa che la lezione di Hannah Arendt si fa di nuovo viva, attuale, tremenda, che è la nuova banalità del male che avanza.
Chi caccia un bambino con la kippah da un locale non è un criminale ideologico. Non è un fanatico da manuale. Non ha letto Herzl né conosce la storia di Israele. È l’uomo qualunque, che compie quel gesto senza pensarci troppo, con l’approvazione implicita del contesto. Non si sente colpevole. Crede di stare dalla parte della giustizia, dei diritti, della pace, mentre sta praticando l’antisemitismo senza nemmeno rendersene conto. Mette in scena il Male impersonale, “giusto”, compiuto nel nome del Bene, con la coscienza tranquilla.
E proprio per questo più pericoloso. Più infame e autentico. Perché non nasce da un’ideologia. Nasce dal
profondo.
Ma se è così, bisogna anche capire che più si demonizza Israele, più si colpiscono gli ebrei nei mercati, nei
bar, nei quartieri, più si dà ragione a Israele. Anzi: più si dà ragione alla sua autodifesa più implacabile, intransigente, identitaria, più diffidente verso il mondo. Quella che dice: ci odieranno comunque, anche se fossimo innocenti, anche se fossimo santi. Ci odieranno perché siamo ebrei. E dunque non possiamo che difenderci. Sempre, e con ogni mezzo.
L’oscena banalità del male, quindi, non solo legittima ma moltiplica le ragioni di Israele. E anche quelle di Netanyahu. Perché dice, semplicemente: avevamo ragione ad aver paura. E abbiamo ragione a chiuderci,
a difenderci, a non fi darci. Abbiamo ragione a costruire uno Stato forte, armato, determinato a sopravvivere.
E chi gliela toglie più, quella ragione?
Direttore del “Riformista”

2 thoughts on “La banalità del male e le ragioni d’Israele

  1. 🎗🇮🇱 bisogna salvarli. Purtroppo tutto questo è servito ha smascherare qualcuno. Adesso è MAI PIÙ.

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