La risposta a una delle firmatarie dell’appello degli “ebrei italiani” contro la “pulizia etnica”

Lettera di Sergio Della Pergola*

Ringrazio Lia Montel Tagliacozzo per la sua lettera aperta rivolta direttamente a me (pubblicata nel numero di marzo di HaKeillah, pag.15 ndr). Troppo onore: non svolgo alcun compito istituzionale. Pertanto le idee che esprimo sono strettamente personali e non pretendono di valere di più rispetto a quelle di chiunque altro. Lia reagisce a una mia critica del documento con circa 200 firme pubblicato su Repubblica e sul Manifesto (e con grafica identica in Australia, con altri nomi).
L’appello diceva: Tump vuole espellere i palestinesi da Gaza. Intanto in Cisgiordania prosegue la violenza del governo e dei coloni israeliani. Ebree ed ebrei italiani dicono: NO alla pulizia etnica, ’Italia non sia complice.
Cedo sia utile dividere la mia risposta in due parti: la prima concerne l’appello stesso, la sconda una riflessione più ampia nei confronti del governo israeliano. L’appello innanzitutto : a chi era rivolto? Quali erano i suoi contenuti? A che titolo lo hanno sottoscritto i firmatari? Sul primo punto non è chiaro se l‘appello fosse rivolto al Presidente Trump, o al primo ministro Meloni, o al primo ministro Netanyahu, o direttamente al popolo italiano, o al popolo israeliano, o a tutti gli ebrei italiani, o semplicemente ai firmatari del documento. Se il destinatario era Trump, direi sarcasticamente che l’appello è riuscito nel suo intento, visto che la proposta del Presidente americano di trasferire l’intera popolazione di Gaza è stata praticamente abbandonata. Lo stesso Trump, fra mille contraddizioni, non ne sembra più molto convinto data la sua impopolarità e l’impossibilità di attuarla.
Quanto all’Italia, non può rendersi complice, né mai ha accennato ad esserlo, di un fatto inesistente. Netanyahu, nonostante alcune sue dichiarazioni formalmente favorevoli alla proposta, non può attuarla da solo. Servirebbero gli USA, ma Trump ha dichiarato che non manderà né un soldato né un dollaro. Né i firmatari dell’appello possono considerarsi direttamente parte in causa. Siamo dunque sul piano del puro velleitarismo. L’appello parla di pulizia etnica a Gaza ma allude anche alla Cisgiordania, dove la situazione è ben differente. A Gaza, certo, l’esercito israeliano ha reagito con brutalità dopo il massacro dei 1200 e la deportazione dei 251 – di cui ancora 59 detenuti, 24 viventi e 35 uccisi. L’operazione di Hamas del 7 ottobre 2023 è stata una meditata azione di guerra, cui si applicano le inevitabili leggi belliche, inclusa una necessaria non proporzionalità nella risposta. Hamas aveva previsto i gravi danni alle infrastrutture e alla popolazione civile, anzi questa era la sua speranza per aumentare la mobilitazione contro Israele: facile trabocchetto in cui sono caduti i benpensanti.
L’appello parla anche della violenza del governo e dei coloni israeliani in Cisgiordania. La confusione fra governo (forze militari) e coloni (persone private) è insostenibile in un discorso politico serio, ma dal testo si evince una piena identità fra questi due elementi, che peraltro spesso si trovano contrapposti gli uni contro gli altri in violenti scontri. Qui l’esercito israeliano svolge un’azione di rastrellamento contro una vera e propria milizia di Hamas, con marce militari, quantità imponenti di armi e munizioni, e continui attentati contro la popolazione civile israeliana, non solo in loco ma anche a Tel Aviv.
È necessario prevenire quello che altrimenti può diventare un secondo 7 ottobre, questa volta al centro del paese. L’appello, dunque, soffre di gravi carenze di informazione e di unilateralità. Non menziona alcuna delle violazioni delle norme basilari della civiltà umana perpetrate da Hamas e dai suoi alleati. La prigionia e l’assassinio a mani nude dei bambini Bibas e la distruzione dei loro corpi dopo la cattura non può lasciare indifferenti, e soprattutto il giudizio in proposito non lascia spazio a negoziato.
Gli orrendi episodi di violenza sessuale e di sterminio di intere famiglie inermi, e perfino il rifiuto di restituire i corpi dei defunti hanno degradato i perpetratori senza attenuanti. Un appello più meditato, equilibrato e rispettabile avrebbe almeno accennato alle colpe della parte araba, e non solo denunciato le possibili carenze della parte israeliana. Il contenuto principale dell’appello consiste nel prendere apertamente le distanze da Israele, ignorando completamente la tragica realtà sul terreno
e la necessità improrogabile di mettere fine all’aggressione concertata da parte delle forze islamiche fondamentaliste guidate dall’Iran. I firmatari vogliono proiettare un’immagine più accettabile soprattutto di se stessi di fronte a un’erosione crescente della posizione di Israele nei media e nella politica italiana. Volenti o nolenti, i firmatari diventano volonterosi esecutori dell’intimazione perentoria lanciata (per correttezza cronologica: diverse settimane dopo la pubblicazione dell’appello) da Giuseppe Conte.
L’inquietante deputato ed ex-primo ministro del M5S ha detto: “[A Gaza] stiamo assistendo a uno sterminio. Questa è una piaga che rimarrà nella storia, nella coscienza collettiva di Israele. Lo dico a tutti gli amici ebrei: dovete dissociarvi perché il silenzio diventa complicità”. Ossia: chi non si dissocia è passibile di sanzione.
Conte parla di un suo impegno contro l’antisemitismo, ma non si rende conto di essere l’antisemita quintessenziale quando reitera questa presunta monoliticità degli ebrei, questa eterna alterità, questa inevitabile subordinazione agli ordini di scuderia. [Conte legga il mio libro “Essere ebrei, oggi” (il Mulino 2024) e capirà meglio il suo antisemitismo].
Sandro Viola scrisse le stesse cose su Repubblica nell’ottobre 1982. Pochissimi giorni dopo ci fu l’attentato al Tempio Maggiore di Roma. Ebbi poi occasione di dire personalmente a Viola che lui era antisemita. Lui sembrò stupito. Ascoltiamo bene le parole di Conte, la sua istigazione latente, la minaccia esplicita. Che senso ha allora ripetere “never again, mai più” quando la filiera delle parole e dei pregiudizi scorre immutabile e ineffabile? Questa perversa catena va fermata in tempo e con tutti i mezzi possibili. Ma si rendono conto i firmatari dell’appello di chi è il loro migliore amico? I firmatari dicono di aver sottoscritto ognuno a titolo strettamente personale. La spiegazione è chiaramente inesatta e contraddittoria. Il pronome plurale NOI presuppone l’esistenza di un collettivo condiviso di “ebree e ebrei italiani”. Si tratta di un gruppo con un minimo di coordinamento interno, che si espone e conta i suoi membri, che vuole trasmettere un messaggio di alto profilo pubblico, non privato e intimo. Nel modo di operare, la definizione di “Italiani di religione ebraica” sarebbe più esatta rispetto a quella di “ebree e ebrei italiani”. Nelle intenzioni, questo è un gruppo di ebrei “buoni” che desidera dissociarsi pubblicamente dalle idee e dai comportamenti di altri ebrei, presumibilmente “cattivi”, in Italia o altrove nel mondo, che sono tutti quelli guidati da Netanyahu in Israele, e hanno anche molti esponenti all’interno delle comunità ebraiche organizzate in Italia.
La litania delle firme degli illuminati ripete quella già notata dopo la guerra del giugno 1967 e dopo la guerra in Libano nel 1982. Alcuni dei firmatari di allora, fra l’altro, partiti da posizioni di sinistra sono in seguito divenuti grandi paladini dell’estrema destra israeliana e italiana. Una versione precedente di questo tipo di esternazioni di sudditanza ebraica di fronte all’egemonia politica e culturale del momento fu quella della Nostra Bandiera negli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso. Anche quelli erano Italiani ebrei i quali, infastiditi dalle circostanze, aspiravano a rimanere dentro al consenso culturale e politico dell’Italia allora fascista, separandosi dal resto della comunità ebraica. Il paragone fra gli ebrei degli anni ’20 del secolo 20° e 21°, lo so, è molto fastidioso e sgradevole, ma è tipologicamente corretto. Spero sia chiaro il concetto di tipologia: parlo del rapporto strutturale di dipendenza fra minoranza e maggioranza non del contenuto specifico della conversazione in un dato momento. L’elemento comune è la professione di italianità.
L’adesione all’appello avrà suscitato ai firmatari gratificazione e appagamento, fra tante sofferenze e frustrazioni. I sottoscrittori si saranno sentiti meglio con se stessi, più puri e anche meglio protetti di fronte ai rischi impliciti nelle parole minacciose alla Conte. L’appello ha una comprensibile valenza di auto-protezione ma il suo impatto politico è praticamente nullo. Per questo, nei miei commenti ho usato espressioni ironiche come “mosche cocchiere”, “compagni di strada” e “utili idioti”. Sono, queste, tutte espressioni usate storicamente con dileggio nella polemica della sinistra, da Vladimir Ilyich Lenin a Antonio Gramsci a Gaetano Salvemini, per indicare chi – privo di reale peso contrattuale – si illude di contribuire a promuovere una causa, quando poi in realtà i risultati saranno opposti agli interessi delle stesse persone.
LE CRITICHE AL GOVERNO NETANYAHU
Con tutta l’attenzione critica dovuta all’appello discusso fin qui, si tratta evidentemente di un episodio marginale di fronte a una domanda di ben altro spessore: È legittimo per un ebreo che vive fuori da Israele esprimere critiche nei confronti del governo di quel paese? È atto di slealtà intervenire con parole e atti di dissenso o anche di contestazione nei confronti dell’esecutivo dello stato ebraico che combatte per la sua stessa esistenza? La mia risposta a questa domanda è inequivocabile: Non solo è diritto, ma è anche dovere esercitare tale facoltà critica – se ve ne siano gli estremi. Una differenza importante è che invece di atteggiarsi a giudici esterni, piazzati su un piedistallo, in nome di una più alta moralità, la critica politica richiede un coinvolgimento molto maggiore, una partecipazione diretta, presenza sul terreno, alimentata da conoscenze dei problemi molto più strette e ravvicinate, e un investimento molto maggiore di energie cognitive e affettive.
Chiamiamo il bambino col suo nome: lo Stato d’Israele attraversa in questo periodo una crisi senza precedenti che ne mette in pericolo la stessa esistenza. Non intendo qui l’ovvia considerazione che il 7 ottobre ha segnato la maggiore catastrofe avvenuta al popolo di Israele dalla fine della seconda guerra mondiale e della Shoah. Il problema vero è interno e riguarda la natura di Israele come Stato ebraico e democratico.
Netanyahu è stato eletto primo ministro nel 1996, circa insieme a Romano Prodi, e trent’anni dopo non solo è ancora al timone, ma stringe ogni giorno di più un laccio mortale attorno al collo della democrazia israeliana. Si è circondato di una corte di accoliti mediocri, sguaiati, corrotti, egoisti, incompetenti, e in qualche caso squilibrati. Vuole ogni giorno di più accentrare a sé tutte la prerogative e le funzioni dello stato. La cosiddetta riforma giudiziaria, di cui sono già passati alcuni capitoli essenziali, è un assalto allo stato di diritto. Gravissima, in particolare, la politicizzazione della Corte Suprema che vedrà da ora in avanti giudici apertamente identificati con i partiti e quindi dipendenti da essi. Il voto a favore di 67 a 1, con l’abbandono della Knesset da parte dell’opposizione, suscita sinistre analogie con la scelta dell’Aventino, esattamente cento anni dopo.
Il governo Netanyahu sta portando al fallimento del rilascio degli ostaggi a Gaza, alla continuazione di una guerra senza obiettivo, alla distruzione dello Stato di diritto, a un deterioramento del bilancio degli investimenti economici, a un bilancio negativo dell’immigrazione, all’isolamento in ogni ambito della cooperazione internazionale e alla spaccatura delle comunità ebraiche in Israele e nella diaspora. Vi è il rifiuto di nominare una commissione d’inchiesta indipendente che verifichi le cause profonde e contingenti della catastrofe del 7 ottobre. Di fronte a tutto questo, non è ancora emersa una voce chiara e dominante che indichi inequivocabilmente una direzione diversa.
Su questi punti cruciali è necessario sentire le voci indipendenti degli ebrei in Israele e nel mondo. Siamo ansiosi di sentire riflessioni, critiche e consigli, e di vedere una partecipazione attiva sul terreno. Questo significa essere ebree e ebrei oggi.

*Fonte: Hakehilah

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