di Giovanni Chiacchio*

Israele e Arabia Saudita alleati nell’ombra. La partnership “dietro le quinte” tra Arabia Saudita e Israele ha storicamente rappresentato un aspetto strutturale della politica della regione mediorientale. Tale intesa apparentemente innaturale tra le due nazioni ha contribuito in maniera decisiva alla determinazione degli equilibri di potere nell’area MENA e potrebbe risultare centrale dietro la risoluzione del conflitto israelo-palestinese.

Il contrappeso

Differentemente da molte regioni appartenenti all’area MENA, la Penisola Arabica durante il Novecento, periodo di formazione della monarchia saudita, non ospitava minoranze ebraiche rilevanti. In conseguenza di ciò, l’attitudine di Abdulaziz Ibn Saud, fondatore dell’Arabia Saudita, nei confronti degli ebrei, risultava fortemente influenzata dai testi religiosi che avevano costituito la base della sua educazione. In virtù di ciò, quest’ultima risultava fortemente demonizzata. Ciononostante, la postura del sovrano saudita verso il movimento sionista si rivelò subito segnata da un forte pragmatismo.

Ibn Saud considerava infatti quest’ultimo un utile contrappeso all’influenza del proprio principale rivale regionale, la dinastia Hashemita di Transcisgiordania, con la quale aveva combattuto una dura guerra per il controllo dello Hejaz negli anni Venti. Si può facilmente intuire come i sauditi considerassero l’eventuale formazione di uno Stato ebraico come un male minore rispetto ad un’eventuale ascesa degli Hashemiti nel territorio del Mandato di Palestina. Al contempo, la comunità ebraica risultava altamente funzionale a limitare le ambizioni di un altro rivale potenzialmente pericoloso per la Casa di Saud, il Gran Mufti palestinese Hajj Amin al-Husayni. Quest’ultimo, presentandosi come guardiano dei siti sacri islamici a Gerusalemme, metteva in discussione la leadership di Riyad nel mondo arabo derivante dal ruolo di custode delle città sante nella Penisola Arabica. Tuttavia, la necessità da parte dell’Arabia Saudita di preservare il proprio ruolo quale massimo punto di riferimento nel mondo islamico, obbligò la Casa di Saud a mantenere una posizione pubblica apparentemente ostile alla formazione di uno Stato ebraico.

Lo scoppio della Guerra Arabo Israeliana del 1948 determinò la possibilità di una forte espansione territoriale della dinastia Hashemita nel territorio palestinese in caso di crollo dello Stato di Israele. Temendo uno spostamento della bilancia di potere a favore dei propri rivali, Ibn Saud decise di non partecipare alle operazioni, limitandosi ad inviare una forza simbolica sotto il comando dell’Egitto che non partecipò alle operazioni. La limitazione dell’espansione della monarchia transcisgiordana alla sola Cisgiordania, risultata nella formazione della Giordania, scongiurò le possibilità di un tentativo della dinastia Hashemita di lanciare un tentativo di riconquista dell’Hejaz per porre sotto il proprio controllo tutte e tre le città sante dell’Islam. A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’Arabia Saudita fu chiamata a far fronte ad una nuova minaccia, l’Egitto di Nasser. In un primo momento i rapporti tra Riyad e Il Cairo si rivelarono piuttosto cordiali, culminando con la firma di un trattato di mutua difesa tra le parti nel 1955. Tuttavia, il progressivo allineamento dell’Egitto su posizioni favorevoli all’URSS determinò l’insorgere di forti preoccupazioni da parte della Casa di Saud, timorosa che la retorica panaraba di Nasser potesse rappresentare una minaccia al ruolo del regno come nazione leader del mondo arabo. Le frizioni tra Egitto e Arabia Saudita esplosero nel 1962, a seguito del colpo di stato repubblicano nello Yemen, il quale determinò l’abbattimento della monarchia locale. Il Cairo intervenne militarmente nell’ambito della successiva guerra civile supportando la fazione repubblicana al fine di estendere la propria influenza sulla Penisola Arabica. Tale conflitto determinò per la prima volta una collaborazione effettiva tra Israele e la monarchia saudita, entrambi schierati dalla parte dei realisti al fine di contrastare il nemico comune. Il conflitto si tramutò ben presto in un disastro per l’Egitto di Nasser, tanto da essere paragonato alla guerra del Vietnam. Ciò avrebbe contribuito al forte indebolimento economico e militare del Cairo, che sarebbe risultato decisivo pochi anni dopo.

(Il principe saudita Bin Salman)

Dal tacito appoggio al dialogo

Nel 1967, l’Egitto di Nasser, indebolito da anni di estenuante conflitto in Yemen, venne facilmente annientato dall’esercito israeliano in una guerra lampo della durata di sei giorni. Nello stesso conflitto, anche la Giordania Hashemita venne duramente battuta e obbligata ad abbandonare la Cisgiordania. L’esito del conflitto determinò un forte riallineamento degli equilibri di potere nel mondo arabo, indebolendo in maniera irreversibile i due principali rivali dell’Arabia Saudita e rafforzando nettamente la posizione di Riyad nel mondo arabo. Tale stato di cose venne dimostrato durante il successivo meeting della Lega Araba tenutosi a Khartoum. La risoluzione risultante consentì infatti ai sensi del suo quarto articolo alle nazioni arabe produttrici di petrolio di riprendere le esportazioni, ponendo di fatto fine all’embargo petrolifero promosso da Nasser, determinando una grave sconfitta diplomatica per quest’ultimo. Al fine di preservare la politica di tolleranza reciproca verso l’Arabia Saudita, Israele, ora in controllo delle Alture del Golan, consentì la continuazione del transito di petrolio saudita verso il Libano attraverso il Trans Arabian-Pipeline. A dispetto del ruolo dello Stato ebraico come contrappeso ai rivali della monarchia saudita, il regno manteneva formalmente una postura fortemente anti-israeliana, supportando la politica dei “tre no” promossa durante il vertice di Khartoum: no riconoscimento, no pace e no negoziazione con Israele.

Il 1973 rappresenta un primo spartiacque nella storia delle relazioni tra Israele e Arabia Saudita, nello specifico esso vede l’inizio del progressivo mutamento della postura saudita dal semplice impiego di Israele come contrappeso ai propri rivali, all’attiva promozione di un processo di pace arabo-israeliano. L’intelligence saudita indicò infatti agli Stati Uniti di considerare la distruzione dello Stato ebraico come una ”aspirazione illegittima”. Tuttavia, ogni possibilità di apertura di un effettivo dialogo venne bloccata dallo scoppio della guerra dello Yom Kippur. Sebbene la monarchia saudita evitò nuovamente di partecipare alle ostilità, il forte supporto offerto dagli Stati Uniti allo Stato ebraico provocò la dura reazione del re Faisal, il quale riuscì a coordinare un nuovo embargo petrolifero volto ad ottenere il ritiro israeliano entro le posizioni dell’armistizio del 1949. La manovra non riuscì a conseguire nessuno degli obiettivi preventivati, ma incrementò notevolmente la popolarità della monarchia saudita nel mondo islamico, rafforzandone contestualmente l’economia. La principale conseguenza dell’embargo del 1973 fu la definitiva affermazione dell’Arabia Saudita come massimo punto di riferimento del mondo arabo e musulmano, in luogo di un Egitto privo della carismatica figura di Nasser e ora guidato da un politico nettamente più vicino a Riyad quale Anwar al Sadat.

Ormai solidamente al vertice del mondo arabo, la monarchia saudita sostenne segretamente il processo di pace tra Egitto e Israele, culminato con la firma dello storico Trattato di pace tra le parti nel 1979, pur mantenendo una posizione pubblica apparentemente ostile. Il 1981 sancisce in maniera definitiva l’assunzione da parte dell’Arabia Saudita del ruolo di principale mediatore tra il mondo arabo e lo Stato di Israele mediante la presentazione del piano di pace di otto punti da parte del Principe Saudita Fahd, passato alla storia come Fahd Plan. I punti del piano di pace vennero accettati dalla Lega Araba durante il successivo summit di Fez tenutosi l’anno successivo, divenendo da allora i pilastri centrali della politica araba verso Israele. La politica saudita si rivelò essenziale nel determinare l’assunzione da parte della Lega Araba di una postura incentrata sulla progressiva normalizzazione con Israele in cambio della formazione di uno Stato palestinese. La manovra saudita determinò un netto miglioramento della posizione del regno nei confronti degli Stati Uniti, contribuendo alla decisione dell’amministrazione Reagan di approvare la vendita dei sistemi AWACS a Riyad.

Tuttavia, le reali possibilità di un’intesa risultavano al tempo piuttosto lontane. Il governo israeliano guidato da Menachem Begin pur avendo accettato la cessione della Penisola del Sinai in cambio della pace con l’Egitto, manteneva una linea fortemente ostile ad ulteriori cessioni territoriali, come dimostrato dall’annessione de facto delle Alture del Golan nel 1981, nonché alla formazione di uno Stato palestinese. Lo Stato ebraico si mostrò fortemente riluttante ad accettare la proposta di pace saudita, ritenendo la formazione di uno Stato palestinese una minaccia alla propria sicurezza. Il governo israeliano si rivelò parimenti scontento della vendita dei sistemi AWACS all’Arabia Saudita, giudicandola come una minaccia alla propria sicurezza, indicando di non considerare ancora Riyad come un possibile partner. A dispetto dell’ancora persistente ostilità, le due nazioni si ritrovarono nuovamente a collaborare per far fronte ad un nemico comune, l’Unione Sovietica. L’intervento sovietico in Afghanistan rappresentava infatti una minaccia per entrambe le parti, in quanto suscettibile di aprire ad un’ulteriore penetrazione sovietica in Medio Oriente. In virtù di ciò, ambedue fornirono il proprio sostegno ai Mujaheddin afghani. La successiva guerra del Golfo determinò nuovamente l’insorgere della minaccia da parte di un nemico comune ad entrambe le nazioni. Durante gli attacchi missilistici iracheni a danno di Israele, il monarca saudita Fahd rassicurò gli Stati Uniti circa l’impegno saudita di battersi al fianco della coalizione a guida americana anche in caso di una risposta israeliana a danno dell’Iraq.

(La firma degli Accordi di Abramo)

Alleati nell’ombra

Un momento decisivo nella storia della partnership tra Israele e Arabia Saudita è rappresentato dalla Rivoluzione Iraniana del 1979. Tale evento determinò l’ascesa di un nuovo rivale comune ad entrambe le nazioni, nettamente più pericoloso ai precedenti, in quanto dotato di una vasta rete di proxies diffusi in buona parte della regione mediorientale. L’intersezione tra la guerra del Golfo e l’ascesa della Repubblica Islamica dell’Iran sancì una ulteriore cesura nei rapporti tra le due nazioni, le quali iniziarono a considerarsi come potenziali partner e non più come un mero contrappeso ai rispettivi rivali. La nuova postura saudita venne concretizzata mediante l’emissione di una fatwa da parte del Gran Mufti locale Shayk Abd al-Aziz Bin Baz, la quale esprimeva supporto ad un trattato di pace con Israele sulla base del Trattato di Hudaybiyya del 628 d.C, mediante il quale il Profeta Maometto siglò una tregua decennale con la tribù politeista dei Quraysh. Al contempo Riyad svolse un ruolo decisivo per porre fine al boicottaggio economico indiretto di Israele da parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo. Nel 2002 l’Arabia Saudita sostenne nell’ambito del summit della Lega Araba tenutosi a Beirut una nuova iniziativa di pace araba mirante a ricomporre il conflitto arabo-israeliano ponendo come condizione la formazione di uno Stato palestinese entro i confini del 1967. Tale iniziativa venne reiterata dalla Lega Araba durante il successivo summit di Riyad del 2007, divenendo parte strutturale della politica estera di gran parte del mondo arabo verso Israele.

A dispetto del mancato stabilimento di relazioni diplomatiche in virtù della mancata formazione di uno Stato palestinese, il progressivo incremento dell’influenza iraniana ha portato alla formazione di una forte collaborazione silenziosa tra le parti estesa ai settori dell’intelligence e della sicurezza. A partire dalla metà degli anni Duemila, Israele ha tacitamente acconsentito a diversi trasferimenti di armamenti tra Stati Uniti e Arabia Saudita, indicando di non considerare più l’incremento delle capacità militari del regno come una minaccia alla propria sicurezza. Il colpo di stato in Yemen operato dalle milizie filoiraniane Houthi e la conseguente guerra civile nel Paese hanno favorito un ulteriore miglioramento delle relazioni tra i due Stati. Dal 2015 il principale saudita Mohamed Bin Salman ha incontrato diverse volte funzionari israeliani, l’anno successivo un generale saudita in pensione ha condotto una visita in Israele. Sempre nel 2016, Riyad ha confermato che manterrà i termini della pace tra Egitto e Israele in relazione alle isole di Tiran e Sanafir, ottenute dall’Egitto nello stesso anno. A seguito dell’ascesa di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti, gli Stati Uniti hanno ulteriormente rafforzato la propria posizione di mediatore tra le parti, al fine di pervenire ad una definitiva normalizzazione.

In conclusione, la partnership tra Israele e l’Arabia Saudita non rappresenta un fenomeno recente, ma affonda le proprie radici in un periodo addirittura precedente alla stessa nascita dello Stato ebraico. Israele ha storicamente rappresentato per l’Arabia Saudita un utile contrappeso ai propri rivali regionali, svolgendo indirettamente un ruolo chiave per l’affermazione della leadership di Riyad nel mondo arabo. Viceversa, la monarchia saudita ha altrettanto indirettamente favorito i successi militari israeliani evitando di intervenire nei principali conflitti che hanno opposto Israele alle nazioni arabe. La definitiva normalizzazione delle relazioni tra le parti, tuttavia, risulta indissolubilmente legata a due fattori: concessioni sul fronte securitario ed economico da parte degli Stati Uniti alla monarchia saudita e la formazione di un effettivo Stato palestinese. L’Arabia Saudita ha infatti richiesto agli Stati Uniti assistenza per avviare un proprio programma nucleare civile, nonché l’eliminazione di diverse restrizioni sul trasferimento di armamenti. In secondo luogo, in virtù della propria posizione di Paese leader del mondo arabo, Riyad non può permettersi di normalizzare appieno i rapporti con lo Stato ebraico senza aver prima ottenuto la formazione di uno Stato palestinese.

L’insorgere del conflitto tra Israele ed Hamas ha determinato un temporaneo stop ai negoziati, tuttavia, ha anche creato nuove opportunità per porre fine al conflitto. Il vantaggio militare comparato di Israele rispetto ai propri rivali è certamente inferiore al 1967. Il possente attacco iraniano con munizioni circuitanti lanciato il 13 aprile a danno dello Stato ebraico è largamente fallito in buona parte grazie al consistente supporto materiale e di intelligence fornito dagli alleati occidentali e dai partner arabi di Israele, senza i quali le conseguenze di quest’ultimo sarebbero risultate nettamente più gravi. Ciò può costituire una forte leva negoziale per convincere Israele a concedere il via libera alla formazione di uno Stato palestinese. In ultima analisi, l’Arabia Saudita, in virtù dei suoi rapporti tendenzialmente cordiali con Israele, potrebbe altresì svolgere un ruolo essenziale nel prevenire una nuova guerra tra lo Stato ebraico e Hamas, nonché nella formazione di solide strutture statali palestinesi, amministrando congiuntamente allo Stato ebraico la Striscia di Gaza, ipotesi già ventilata da alcuni funzionari israeliani.
*Geopolitica.info

One thought on “L’asse nell’ombra (Israele e Arabia Saudita)

  1. Ricostruzione storica molto accurata di un passato recente ,ma non da tutti ricordato.
    La conclusione è aperta alla speranza anche se forse troppo ottimista

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