di Nicola Fioretti

C’è chi l’ha definita una “meschinità”, chi un atto di cinismo. Ma, a ben vedere, la polemica sulle fatture inviate dal Dipartimento Federale degli Affari Esteri (DFAE) agli attivisti della Freedom Flotilla si è concentrata esclusivamente sulla sfera emotiva, ignorando il principio di fondo. Perché dietro quei numeri non c’è freddezza burocratica, ma un principio chiaro: la responsabilità individuale davanti alle scelte politiche.
La Flottilla si era presentata come missione umanitaria. Sebbene politica e azioni umanitarie possano talvolta coincidere, la cartina tornasole ha rivelato un obiettivo ben diverso: non si trattava di distribuire aiuti in coordinamento con le ONG locali. Si mirava, invece, a sfidare apertamente il blocco marittimo, creare deliberatamente momenti di tensione e utilizzare le navi come un efficace palcoscenico mediatico.
Non logistica, ma provocazione. Non cooperazione, ma spettacolo politico. L’azione ha superato il confine della legittima protesta trasformandosi in uno strumento di confronto diretto, violando il principio di precauzione logistica.
In quel contesto, la Svizzera ha fatto ciò che le competeva: ha garantito assistenza consolare, negoziato con Israele e organizzato il rimpatrio dei suoi cittadini. Ha rispettato la Costituzione, proteggendo chi ne aveva diritto. Ma ha anche chiesto il rimborso delle spese straordinarie: diplomatici inviati d’urgenza, viaggi imprevisti, supporto logistico eccezionale. E qui sta il punto.
Perché mai un pensionato di Lugano o un impiegato di Basilea dovrebbero pagare di tasca propria
le conseguenze di una scelta politica deliberata da un ristretto gruppo di attivisti? E qui si rende necessario un crudele, ma onesto, esercizio mentale: che cosa ha reso il rimpatrio possibile? Il fatto che l’azione fosse diretta verso una democrazia, sebbene in stato di conflitto.
Immaginiamo, per un istante, che la Flottilla avesse tentato di sfidare un attore non statale come
Hamas, o una dittatura senza alcun rispetto per il diritto internazionale. Non ci sarebbero state
negoziazioni consolari né un interlocutore disposto a garantire l’incolumità fisica. Questa riflessione quindi porta a una conclusione ancora più netta: i costi operativi non sono stati generati tanto dalla “missione”, quanto dalla presunzione che l’avversario avrebbe rispettato delle regole, permettendo il salvataggio diplomatico.
La “logica di Berna” è semplice nella sua chiarezza: protezione consolare sì, sovvenzione di azioni rischiose no. È un principio di equità fiscale. Se lo Stato copre sempre e comunque i costi di scelte politiche personali, si incoraggia la deresponsabilizzazione. La fattura diventa allora un messaggio trasparente: la libertà di manifestare resta intatta, ma non a spese della collettività.
E qui l’Europa dovrebbe fermarsi a riflettere. Ogni anno i ministeri degli Esteri spendono milioni
per rimpatriare cittadini che ignorano avvisi di viaggio o si mettono volontariamente in situazioni pericolose. È come se un turista decidesse di scalare un vulcano attivo nonostante i cartelli di divieto, e poi pretendesse che lo Stato pagasse l’elicottero di soccorso. La Svizzera ha tracciato una linea netta: tutela dei diritti, ma anche tutela del bilancio pubblico.
La Flottilla non era un convoglio umanitario, bensì un’operazione politica ben orchestrata, mascherata da solidarietà. Con la richiesta di rimborso, la Svizzera non ha solo difeso i suoi contribuenti: ha dato un segnale di coerenza e integrità. La “logica di Berna” non è meschinità, ma responsabilità. Ed è tempo che anche l’Europa la faccia propria.

Torna all'inizio