del Prof. Maurizio Martelli, già Prorettore, Università di Genova.

La discussione sempre più accesa nell’opinione pubblica italiana (e europea) riguardo alla guerra di Gaza si sta polarizzando fino a far prevalere tesi apertamente antisemite che fino a pochi anni fa solo le frange più estremiste pro-pal avevano il coraggio di sostenere. Il mondo ebraico guarda con preoccupazione e sconcerto anche alla frattura interna che vede esponenti di sinistra apertamente critici nei confronti di Israele.
Non voglio entrare nel merito delle caratteristiche e del giudizio storico sul conflitto che molti altri hanno affrontato con competenza, ma mi concentro sul legame con le pulsioni antisemite che vengono stimolate a prescindere dalla valutazione sulle responsabilità di Israele o di Netanyahu.
L’eccezionalità che sempre si manifesta quando si critica Israele sembra trascendere le responsabilità. Numerosi esempi mostrano questa tendenza: tra le oltre 50 guerre nel mondo si dà risalto solo a quelle di Ucraina e Gaza, ma se si deve parlare di vittime le uniche a suscitare indignazione sono quelle palestinesi (quelle civili ucraine pur documentate sono considerate casualità della guerra); gli oltre centomila morti nel Tigray e nel Sudan o le migliaia in Myanmar non pervenuti (e non è un problema di guerra vicina o lontana perché lo sdegno morale non dovrebbe aver confini). Le tristi condizioni dei cristiani nel mondo (come in Nigeria), decine di migliaia di morti e centinaia di migliaia di persone costrette a lasciare il proprio paese non pervenuti, solo tre morti nella chiesa di Gaza sembrano interessare; l’odio contro gli Israeliani esteso agli Ebrei è un unicum, anche i Russi sono ben accettati da noi; accordi scientifici e commerciali vengono messi in discussione solo quando riguardano Israele, nonostante ci siano Stati che perseguitano minoranze o invadono altri Stati (tanto per dare un esempio riusciamo a vendere armi anche alla giunta militare del Myanmar); tutti i profughi sono gestiti da una organizzazione unica da parte dell’ONU, l’UNHCR, ma solo i Palestinesi hanno una specifica organizzazione, l’UNRWA, che ha come obiettivo aiutare i Palestinesi a ritornare in Israele; e così via.
La domanda, quindi, è: perché l’opinione pubblica, e gli intellettuali in gran maggioranza, hanno questa ipersensibilità avversa a Israele? Certo c’è la malafede di tanti ma ci non spiegherebbe la ricezione e l’autoalimentazione del pregiudizio nell’opinione pubblica.
Le grandi correnti di pensiero
La società italiana, caratterizzata da una grande diversità, ha subito per secoli l’influenza dal cattolicesimo che ha diffuso pregiudizi nei confronti degli Ebrei “deicidi”. Pregiudizi che non solo riguardavano l’accusa di aver ucciso Gesù, ma che raggiunsero anche il culmine con l’accusa di uccidere i figli dei cristiani per usarne il sangue per i propri riti, in particolare nella preparazione del pane per la Pasqua ebraica. L’odio diffuso poi verso gli Ebrei usurai completava il pregiudizio, che si è poi amplificato con l’associazione degli Ebrei all’illuminismo e al capitalismo. È vero che la posizione della Chiesa, con il Concilio Vaticano II del 1965, è cambiata, ma quasi duemila anni di pregiudizi radicati non si cancellano facilmente, essi persistono nell’immaginario collettivo.
Il vero cambio di paradigma nelle società avvenne con l’avvento dell’illuminismo nel XVIII secolo. Il primato della ragione e dell’individuo apriva agli Ebrei prospettive inaudite per secoli. La nascita della Haskalah, o illuminismo ebraico, permise di ridefinire le prospettive di lavoro degli Ebrei e di rinnovarne le pratiche religiose; purtroppo questa profonda trasformazione cambia solo la forma ma non la sostanza del pregiudizio. Voltaire afferma: “Gli Ebrei sono quasi sempre stati o erranti, o briganti, o schiavi, o rivoltosi; ancora oggi sono vagabondi per la terra, in orrore agli uomini, e assicurano che il cielo e la terra e tutti gli uomini sono stati creati solo per loro”.
L’approccio più benevolo era basato sulla necessità, per l’integrazione degli Ebrei, della rinuncia alla propria tradizione religiosa e culturale, ignorando la specificità del loro essere un popolo e non solo fedeli di una religione. Questo ha dato origine a nuove forme di antisemitismo razziale o nazionalista, pur nella svolta eccezionale delle possibilità di sviluppo individuale degli Ebrei.
In Italia, accanto alla cultura cattolica, si sviluppa il pensiero socialista e poi comunista che esercita un forte impatto sulla popolazione. Tuttavia, è importante notare che, eredi del pensiero illuminista, il movimento socialista nacque in Francia con un marcato pregiudizio antisemita; Michele Battini nel suo libro “Il Socialismo degli imbecilli” (Bollati Boringhieri) è una fonte inesauribile di informazioni. Il punto era la trasposizione dell’odio e dell’invidia verso gli Ebrei che, emancipandosi e arricchendosi, da semplici usurai si trasformavano in capitalisti. L’ebreo “buono” era solo quello che rinnegava la propria identità ebraica, un po’ come per i cattolici che lo perdonavano solo se si convertiva. Marx con il suo trattato “La questione ebraica”, in qualità di ebreo “buono”, teorizza il legame indissolubile tra capitalismo e pensiero ebraico, una concezione che impregnerà tutto il movimento comunista mondiale. I numerosi comunisti ebrei, a meno che non venissero eliminati come Trotsky, erano sempre accettati con un sospetto latente, come avvenne con Terracini in Italia.
Un altro movimento di pensiero e azione politica che si è dimostrato potenzialmente più favorevole per gli Ebrei è stato il liberalismo che si contrapponeva sia al cattolicesimo che al socialismo e che quindi era visto dagli Ebrei scevro da pregiudizi religiosi e politici. Purtroppo, nonostante molti casi positivi, come l’atteggiamento dei liberali piemontesi nel Regno Sabaudo (si pensi a Massimo D’Azeglio quando scrisse il famoso pamphlet “Sull’emancipazione civile degli israeliti”), in molti altri casi il pregiudizio prese contorni razziali e nazionalisti. Personaggi come Osman Bey, autore del libro “Antisemitismo Liberale” del 1873, sostiene che gli “Ebrei, mossi da interessi materiali, si impegnano nella conquista dei vertici politici e finanziari degli Stati allo scopo di impadronirsi del mondo intero” (una terribile anticipazione del nazismo); altri approcci si basavano sull’alterità delle comunità ebraiche rispetto agli Stati nazionali. In un noto libro di Green e Sullam si ipotizza che “i sistemi liberali rifiutano discriminazioni nei confronti degli ebrei allorché si tratta di mettere in questione la sfera di autonomia individuale che viene attribuita a ogni singolo cittadino; non li escludono invece quando gli Ebrei si presentano o vengono considerati come un gruppo che invoca o pretende diritti in quanto comunità intermedia tra lo Stato e il cittadino”. Da qui le difficoltà del riconoscimento degli Ebrei come popolo e l’avversione nei confronti del movimento sionista.
I partiti politici e i movimenti della prima metà del XX secolo in Italia
Un primo dato di cui tener conto in Italia è la relativa giovinezza dello Stato. Le differenze tra gli Stati che costituiranno l’Italia dal punto di vista della pervasività dell’antisemitismo erano evidenti. Il Regno delle Due Sicilie, con la lunga influenza spagnola, aveva visto l’eliminazione della presenza ebraica sin dal XVI secolo, mentre lo Stato Pontificio considerava gli Ebrei deicidi come dei paria. Quindi spazio di sviluppo per gli Ebrei rimaneva il nord Italia e la Toscana.
Pietro Leopoldo di Asburgo-Lorena, granduca di Toscana, anticipa le aperture che derivarono dalle “Patenti di Tolleranza” di Giuseppe II d’Asburgo-Lorena, emanate tra il 1781 e il 1785. Questi editti concedevano libertà religiosa alle minoranze non cattoliche nei territori dell’Impero Asburgico. Queste trasformazioni si aggiungevano agli statuti particolari di Livorno, Pisa e Pitigliano in Toscana ma impattarono anche gran parte dei territori del Nord Est dell’Italia.
Il resto del nord Italia vedeva una diffusa presenza ebraica che rifiorì con lo Statuto Albertino del 1848. Questo rappresenta un importante passo avanti per gli Ebrei italiani, segnando l’inizio di un processo di emancipazione e integrazione nella società.
Sia la Destra Storica di Cavour che la Sinistra Storica di Depretis e poi la Democrazia Liberale di Giolitti mantennero un approccio liberale aperto nei confronti degli Ebrei con molti esponenti politici italiani dell’epoca di religione ebraica. La nascita e lo sviluppo dei partiti socialisti, nonostante la presenza di ebrei come Treves e Modigliani, vide il mantenimento dell’ambiguità di fondo del socialismo sul tema. La nascita del Partito Popolare Italiano di Sturzo nel 1919 riporta il mondo cattolico nella politica italiana, ma anch’esso mantenne le caratteristiche antisemite di matrice cattolica. Infine l’avvento del Partito Fascista segna l’inizio di un terribile periodo che si sostanzia con le Leggi Razziali e la Shoah.
In conclusione, la società italiana nel suo complesso mantenne, soprattutto a livello popolare, tutti i pregiudizi e le diffidenze nei confronti degli Ebrei. Diverso fù l’atteggiamento della borghesia italiana di impronta liberale. Naturalmente le Leggi Razziali suscitarono una resistenza popolare come quella del coltello nel burro con pochissime eccezioni di contestazioni reali.
I partiti politici del dopoguerra
La fine della guerra, la resistenza e l’istituzione della nuova costituzione italiana segnarono l’avvento di un’epoca in cui l’antisemitismo esplicito di stampo razziale divenne socialmente inaccettabile. L’ebreo morto veniva celebrato come vittima ma gli Ebrei in quanto popolo rimanevano oggetto di stereotipi e diffidenza. Inizia quindi il passaggio dall’antisemitismo all’antisionismo, questo in forme differenziate a seconda dei vari partiti e che si riflesse nel rapporto con i conflitti tra Israele e Paesi Arabi.
Il Movimento Sociale Italiano (MSI), erede del fascismo, ha incontrato molte difficoltà nel riposizionarsi, con Almirante redattore della rivista “La difesa della Razza”. A livello internazionale, gli Arabi erano stati leali alleati di Hitler e Mussolini, in particolare i Palestinesi nella persona del Gran Mufti di Gerusalemme. La svolta arriva con la creazione di Alleanza Nazionale a Fiuggi; tuttavia, è innegabile che un partito antisemita e antisionista non possa cambiare in breve tempo la propria cultura. Vedremo dopo i posizionamenti più recenti.
La Democrazia Cristiana, in stretto collegamento con il Vaticano, manterrà per anni un’ambiguità su questi temi. Il Vaticano solo nel 1993 riconoscerà lo Stato di Israele ed ha avuto per anni un desiderio di giocare una partita nella gestione di Gerusalemme (retaggio forse del periodo delle Crociate!). Inoltre, grazie alla presenza di arabi cristiani palestinesi, ha mantenuto saldi legami con le loro rivendicazioni antisioniste. Sulla base di queste premesse, la DC ha mantenuto una analoga posizione, cercando inoltre di stabilire forti relazioni con i Paesi Arabi per favorite l’impulso di Enrico Mattei, fondatore dell’ENI, a giocare una partita nello scontro con le sette sorelle americane.
Questa politica, pur importante per gli interessi italiani, ha portato a posizioni di distanza politica da Israele, alla formazione di una leva di ambasciatori sempre più filo Arabi e filo Palestinesi (come si evince ancora recentemente dalle prese di posizione di alcuni di loro). Inoltre ha favorito un rapporto stretto con la resistenza palestinese come evidenziato dal cosiddetto lodo Moro, in cui le organizzazioni terroriste palestinesi erano libere di operare in Italia in cambio della rinuncia a compiere attentati nel nostro territorio (peraltro non sempre rispettata).
Nel dopoguerra la sinistra aveva ottime relazioni con Israele. La maggioranza ashkenazita, di origine europea e quindi influenzata da istanze socialiste ebraiche, con la creazione dei kibbutz di impronta socialista aveva stemperato nella sinistra italiana l’idea che gli Ebrei fossero portatori del germe del capitalismo. Inoltre l’URSS, in funzione anti-occidentale, aveva favorito la nascita di Israele con le famose armi cecoslovacche fornite all’esercito israeliano. Purtroppo l’idillio finì velocemente; tra la crisi di Suez del 1956 e la guerra arabo israeliana del 1967 avvenne il rovesciamento delle alleanze. Israele, Stato democratico e con istituzioni di tipo occidentale, si avvicina sempre più agli USA e all’occidente mentre il mondo arabo si riposiziona sul fronte socialista con un fortissimo appoggio da parte del Patto di Varsavia che vedeva il mondo arabo alleato fondamentale nella guerra fredda. La definizione del sionismo come forma di colonialismo propagandata dal Partito Comunista Sovietico fu subito recepita dal PCI e in parte dal PSI. Il finanziamento della resistenza palestinese fu una ovvia conseguenza. Nella sinistra italiana si forma un pensiero che cementa il diffuso anticapitalismo e antiamericanismo con l’antisionismo, l’avversione ad Israele e l’appoggio alle formazioni terroriste palestinesi viste come nuova forma di resistenza.
Nel PCI la storica diffidenza verso gli Ebrei come popolo trova nuova linfa. Ricordiamo che Togliatti, fedelissimo alleato di Stalin e terzo in grado nell’Internazionale Comunista, nulla ebbe a dire sulle persecuzioni degli Ebrei in Russia, che vennero anche confinati in Kamchatka, e sui loro tentativi di emigrare in Israele. Il fronte antimperialista composto dai regimi comunisti, dai movimenti terzomondisti in America Latina, dal mondo arabo e poi dai movimenti studenteschi del 1968 arriva a condividere la Risoluzione ONU 3379, approvata nel 1975 e revocata solo nel 1991, che recitava: “Il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale.” Per inciso, questo dovrebbe far riflettere sulla cosiddetta “terzietà” dell’ONU su questi temi! La lotta contro Israele divenne così strumento di mobilitazione interna e simbolo dell’opposizione all’egemonia occidentale.
Il PSI, pur condividendo il comune sentire della sinistra anti-americana, fu molto più interessato, da partito inserito nei governi nazionali, a favorire le prospettive dell’azione dell’ENI nel mondo arabo con una visione convergente con quella della DC. Fondamentale è ricordare il rapporto tra PSI e OLP; l’episodio di Sigonella con la liberazione dei terroristi palestinesi che avevano sequestrato l’Achille Lauro fece acquisire a Craxi la posizione di un eroe che non cedeva agli USA ma più prosaicamente sembra che il rapporto fosse basato sul fatto che i fondi segreti di Arafat fossero gestiti in comune con quelli del PSI.
In questo panorama, solo alcune forze minori si distinsero come amici del mondo ebraico e di Israele. Il PLI erede di Cavour e il PRI erede di Mazzini furono sicuramente attenti a combattere ogni forma di antisionismo; i liberali e i repubblicani in Italia furono anche così percepiti dalla piccola comunità ebraica italiana. Il PSDI di Saragat che aveva rotto con il PSI segui tendenzialmente l’alleato americano anche su questo fronte e così i Radicali.
In conclusione, per tutta la fine del XX secolo la gran parte della popolazione italiana era influenzata da una propaganda che solidarizzava con gli Ebrei vittime della Shoah ma rimaneva diffidente dell’ebreo come popolo e delle sue aspirazioni. Anche senza poterselo confessare, c’era la speranza di poter superare il senso di vergogna per quanto successo durante il fascismo potendo criticare Israele per qualche azione moralmente deprecabile.
Nulla di nuovo oggi se riflettiamo a cosa successe con la guerra del Libano nel 1982. Magistrale il famoso articolo “Davide, discolpati!” di Rosellina Balbi su “la Repubblica” del 6 luglio 1982 sull’indignazione selettiva verso Israele e sulla pretesa unica nel mondo (specialmente a sinistra, era infatti una risposta alla Rossanda) che ogni ebreo fosse chiamato a prendere le distanze da Israele perché uno stato ebraico doveva essere “giusto” o non essere. Il clima antisraeliano raggiunse toni analoghi a quelli di oggi con l’accusa di genocidio e di ebrei nazisti specie dopo il massacro di Sabra e Chatila in cui i cristiani maroniti libanesi massacrarono i due campi palestinesi, Palestinesi che venivano visti ingerenti in Libano e causa del conflitto con Israele. L’esercito israeliano fu accusato di non essere intervenuto per impedirlo e questo causa una crisi in Israele, gli attentati contro gli ebrei come quello alla sinagoga di Roma dove perì il piccolo Stefano Taché e una sollevazione mondiale contro Israele simile a quella di oggi.
Il 7 ottobre e la guerra di Gaza
Veniamo all’oggi. L’antisemitismo razziale rimane prerogativa di poche formazioni neofasciste come Casa Pound, mentre permangono i pregiudizi popolari come l’avarizia (nel sud si dice rabbino per avaro) o l’apprezzamento per una supposta superiorità che permette di vedere gli Ebrei come altri e che si trasforma nella felicità di poter prenderli in fallo.
L’antisemitismo si trasforma nel più accettabile antisionismo che consiste nella non accettazione della legittimità alla aspirazione per l’autodeterminazione di un popolo e quindi nell’odio verso Israele e di conseguenza a supporto dei Palestinesi.
Il panorama politico e intellettuale coinvolto in questa deriva ha subito varie trasformazioni negli ultimi decenni, influenzate anche da collocazioni geopolitiche modificate soggettivamente o a causa dei cambiamenti intervenuti a livello mondiale.
A destra si è osservato un progressivo avvicinamento alle posizioni favorevoli ad Israele, in parte come reazione a quanto avveniva a sinistra. Sul convincimento personale dei vari esponenti di destra si possono nutrire molti dubbi e ogni tanto singole pulsioni emergono tuttora. Fratelli d’Italia ha fatto i passi più significativi interiorizzando Fiuggi, apprezzando lo spostamento a destra del governo israeliano e, ora, in virtù della nuova posizione filoatlantica. Pur persistendo alcune diffidenze culturali e ideologiche, è evidente che sia stato superato l’atteggiamento ostile del passato.
Per quanto riguarda la Lega il discorso è più semplice; l’elettorato è poco ideologizzato come provenienza e riflette i pregiudizi tipici del popolo italiano. L’ammirazione per Trump ha spinto il partito a prendere posizione abbastanza decisa in difesa di Israele, anche se l’ascesa di Vannacci ha riportato in auge il vecchio antisemitismo del MSI. Ma questo fa parte della discrasia che emerge nel partito (basta pensare alla distanza tra Vannacci e Zaia).
Forza Italia, nonostante il suo carattere di partito personale, ha sicuramente una componente liberale amica di Israele. Tuttavia molti suoi esponenti di provenienza democristiana portano ancora con sé la vecchia impostazione cattolico-DC.
A sinistra il quadro è speculare. Rifiorisce l’antisionismo tipico del PCI che si sposa con la visione di Israele coloniale e l’attivismo pro Palestina. Nonostante la sparuta resistenza della Sinistra per Israele che cerca di concentrare l’odio su Netanyahu e su specifiche azioni del governo, la deriva è totale. Il PD di Schlein, con minime resistenze della componente riformista, è schierato; AVS rimane ferocemente legata all’antisionismo dell’estrema sinistra italiana e ai suoi antichi legami con le organizzazioni terroristiche palestinesi.
Il M5S ha trovato nella sua recente posizione di sinistra, pacifista e anti-israeliana una sua ragion d’essere. Una strategia furbesca per mettere in difficoltà il PD accrescendo le sue contraddizioni interne e guidando campagne d’opinione pro-pal.
La costruzione di una alleanza a sinistra trova queste posizioni come sine qua non ed è uno dei paletti per forzare a sinistra il cosiddetto “campo largo”. Pertanto si assiste a un forte posizionamento anti-Israele e a una campagna mediatica sia da parte degli intellettuali organici che della stampa progressista come strumento di lotta politica interna anti governativa. Inoltre, dal punto di vista internazionale, la posizione anti-Israele è funzionale a un atteggiamento anti-Trump che richiama all’azione gli attivisti antiamericani e anti-capitalisti di ogni tipo, spostando nel contempo l’attenzione dalle posizioni sull’Ucraina che vede la sinistra divisa. Questa posizione si sposa con le pulsioni europee dello stesso tenore come testimoniato dal dibattito sul riconoscimento della Palestina, battaglia a bassa incidenza reale sul problema ma a alto contenuto di battaglia politica interna ai vari paesi e al confronto USA-Europa (discorso troppo lungo da affrontare qui, ma ogni paese europeo ha le sue “ragioni”, dalla forte presenza islamica in Gran Bretagna e Francia allo storico rapporto tra terroristi palestinesi ed IRA per l’Irlanda).
Rimane il frammentato mondo liberale che testimonia come su questo tema ben poco si sia fatto per allargare il vecchio campo PLI-PRI del dopoguerra. Azione e Partito Liberaldemocratico con diverse sfumature rimangono attente alle ragioni di Israele e combattono l’antisemitismo di ritorno pur con la preoccupazione di non esporsi troppo sul tema. Ciò varrebbe anche per Renzi e +Europa che per devono barcamenarsi col tentativo di ritornare in partita nel “campo largo”.
Questo panorama di bassa cucina elettorale non è sufficiente a spiegare i sentimenti così diffusi nell’opinione pubblica odierna. Gli antichi pregiudizi latenti si sono combinati con l’attualità come nel 1982, ma cruciale è stato l’atteggiamento del mondo intellettuale e della stampa. I pochi anticorpi a sinistra sono saltati, trasformando legittime critiche alle azioni e\o posizioni di politici israeliani in antagonismo tout court contro Israele, senza nemmeno tener conto del contesto reale della guerra scatenata da Hamas. Un elenco delle varie ragioni di questa deriva include non esaustivamente:
- la necessità di combattere la deriva americana e, a fortiori trumpiana, vicina a Israele;
- il tentativo di contrastare un governo Meloni descritto da alcuni come erede del fascismo, che su queste posizioni potrebbe trovarsi in difficoltà;
- il desiderio di migliorare ancor di più il buon rapporto con il mondo arabo, sia per l’approvvigionamento energetico ma soprattutto per legare sul fronte interno la posizione favorevole all’immigrazione con i diritti dei poveri palestinesi;
- il ruolo di potenza mondiale dell’informazione e di potenza economica del Qatar con AlJazeera, che ha sempre sostenuto Hamas e la causa palestinese di matrice terrorista anche forzando la mano con i suoi capitali ormai dilaganti in occidente per modificare la narrazione con falsi e fake-news così numerose e documentate ma immediatamente dimenticate o addirittura perdonate perché funzionali alla causa;
- la visione ormai prevalente a sinistra di tipo post-storicista, in cui la guerra è espunta dal concepibile e tutto dovrebbe essere rimandato a improbabili regole di diritto internazionale, alle quali ormai solo noi europei crediamo, senza peraltro avere una forza militare sufficiente a poter renderla cogente;
- la mitizzazione dell ONG che, per difendere i più deboli, fanno coincidere qualsiasi posizione anti-occidentale (contro i cattivi imperialisti) con un diritto a essere sostenuta;
- la bandiera dell’ONU e delle sue articolazioni che sono ormai, nella loro ininfluenza, controllate da una maggioranza di paesi anti-occidentali, regimi dittatoriali e in gran parte mussulmani (p.e. diversi ruoli apicali di organismi per i diritti civili o in difesa delle donne in mano a Cuba o Iran); il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha approvato più risoluzioni contro Israele che contro tutti gli altri paesi messi insieme;
- il ruolo pervasivo dei social media, anche in Italia, che veicolano le tendenze woke americane in cui tutti i bianchi sono responsabili di tutti i mali del mondo perché colonialisti e quindi gli Ebrei, bianchi, non sono i perseguitati ma i colonizzatori.
Il risultato è che, tra tutti i drammi del mondo, la mobilitazione popolare si attiva solo contro Israele; nelle università si chiede di interrompere ogni rapporto con Israele ma si mantengono con l’Università di Gaza in mano ad Hamas, con l’Iran, con la Russia, con la Cina, con l’Egitto e così elencando; si cerca di non invitare Ebrei e Israeliani in convegni o premi letterari per evitare imbarazzi o contestazioni e così via. C’è una diffusa soddisfazione nel poter smettere di dover sopportare le lamentazioni degli Ebrei per la Shoah!
I contrasti in Israele e nella diaspora ebraica
La variabile più gettonata per sostenere che tra antisemitismo e antisionismo (ed a fortiori l’essere anti-Israele) non ci sia relazione è il crescente numero di Ebrei che criticano le politiche, definite “genocidarie”, di Israele e che rigettano il sionismo. Il tema non è nuovo per svariati motivi, dal fatto che un popolo contiene sempre una pluralità di opinioni (minoritarie o meno) al concetto degli “utili idioti” di leninista memoria.
Oggi il mosaico si complica a causa del combinato disposto tra le divisioni in terra di Israele e le dinamiche tra gli ebrei della diaspora. Posizioni o motivazioni si richiamano l’una con l’altra senza necessariamente essere coerenti. Vediamole separatamente.
Capire Israele oggi, e le fortissime lacerazioni al suo interno, non si può derubricare al famoso detto ebraico “due ebrei tre opinioni” ma bisogna considerare prima di tutto i cambiamenti nella composizione sociale avvenuti nel corso del tempo. Originariamente composta principalmente da persone di origine ashkenazita ed europea che hanno forgiato lo Stato e le sue istituzioni, oggi questi sono meno del 30%. L’arrivo di comunità ebraiche mizrahi (ebrei arabi provenienti da Yemen, Irak, Iran…) e sefarditi, che sono stati oggetto di persecuzioni e pogrom vari, ha avuto un picco dopo la guerra dei sei giorni del 1967. Evento che provoca l’espulsione (in alcuni casi il massacro) e la confisca dei beni di gran parte della popolazione ebraica nei paesi del sud del Mediterraneo. Secondo le statistiche ufficiali arabe, 856.000 Ebrei hanno dovuto lasciare le loro case nei Paesi Arabi tra il 1948 agli inizi del 1970. Circa 600.000 si sono reinsediati in Israele, numero equivalente agli Arabi che hanno dato inizio alla comunità dei profughi palestinesi. Si stima che le proprietà ebraiche nei Paesi Arabi sarebbero valutate oggi a più di 300 miliardi di dollari e le proprietà immobiliari lasciate nelle terre arabe equivarrebbero a 100.000 chilometri quadrati (quattro volte la dimensione dello Stato di Israele). Ovviamente nessuno si è indignato e il fatto è stato presto dimenticato. La maggioranza degli Ebrei oggi in Israele è originaria di queste popolazioni.
A questa composizione dei primi decenni del post Seconda guerra mondiale, si deve aggiungere la presenza del milione e mezzo di Ebrei russi fuggiti dalla Russia comunista che tuttora parlano russo tra loro e le comunità Haredim (o ultra-ortodosse) che superano il 10% degli Ebrei israeliani. Il quadro è inoltre complicato dalla componente estremista di destra (coloni ma non solo) del Partito Sionista Religioso di Smotrich e del Potere Ebraico di Ben-Gvir che insieme per hanno ottenuto solo il 5% dei voti e 6 seggi.
Questo provoca faglie che si intersecano: gli Haredim non riconoscono lo Stato di Israele aspettando il ritorno del Messia, vogliono l’esenzione dal servizio militare e sono estremamente conservatori; la posizione di molti ashkenaziti è di stampo più occidentale (diremmo politologicamente più di sinistra) e spesso non si adegua a una collocazione nel contesto mediorientale che viene letto con maggior acume dai sefarditi vissuti a contatto con gli Arabi e che hanno subito sulla loro pelle l’Islam e la Sharia. Lo stesso movimento dei coloni vede estremisti religiosi ma anche nuovi immigrati che trovano abitazioni più convenienti; la tradizione ebraica di non abbandonare mai dei perseguitati (ora gli ostaggi) si scontra con le esigenze militari, e così via. La battaglia politica è quindi molto forte specialmente in periodo di guerra e vede contrasti sia di tipo tattico che strategico. Unità sulla difesa dello Stato di Israele ma divisioni su come condurre la guerra. Questo provoca anche l’utilizzo, spesso strumentale, delle posizioni anti-Israele che vengono dall’estero per forzare la discussione interna e, ovviamente, le dichiarazioni ad uso interno sono strumentalizzate all’estero.
Le dinamiche nella diaspora, in Italia ma non solo, sono invece molto influenzate dal comune sentire del resto della popolazione. L’ostracismo verso gli Ebrei, se non si conformano alla visione dei vari gruppi politici di appartenenza, porta a un appiattimento e un conformismo per non essere stigmatizzati; ovviamente ciò produce anche i “più realisti del re”. Il substrato di antico e moderno antisemitismo in Italia rende difficile per le comunità ebraiche perfino controbattere alle narrazioni prevalenti veicolate specialmente da intellettuali, stampa e partiti.
Come abbiamo analizzato, la sinistra sembra oggi ripercorrere con una precisa similitudine la “Dezinformatsiya” usata contro Israele dall’Unione Sovietica. Questo fenomeno può essere interpretato come un tipico esempio di guerra ibrida, che sfrutta i social media, le fake news e il potere economico del mondo anti-occidentale (e islamico in particolare); esso ottiene per un successo notevole proprio grazie al costante richiamo agli storici stilemi antisemiti (dai bambini uccisi per usarne il sangue al complotto stile “Protocolli dei Savi di Sion”).
Negli ultimi anni si è verificato un nuovo fenomeno che fa da moltiplicatore della antica tradizionale campagna comunista contro Israele colonizzatore del territorio palestinese. In passato la sinistra era influenzata da questa campagna anche perché veniva letta in funzione anti-americana. Oggi assistiamo a un nuovo movimento che parte proprio dagli Stati Uniti. Le battaglie sui diritti civili della comunità nera in America (come quelle di Martin Luther King) erano viste collegate alle persecuzioni degli Ebrei nel mondo. Tuttavia, a partire dalla nascita del movimento dei Black Lives Matter e di tutto quello che oggi definiamo “woke” le cose sono cambiate. La presenza di comunità islamiche in America ha favorito il collegamento tra le rivendicazioni dei neri e quello dei Palestinesi (vedi l’attivismo della palestinese Rashida Tlaib, rappresentante del Michigan). Inoltre la narrazione su Israele (gli Ebrei bianchi che perseguitano i Palestinesi) è influenzata dalla lettura che la società americana si sia sviluppata sulla basa della “colonizzazione” dei bianchi europei che hanno sterminato nativi, sfruttato gli schiavi e tutte le minoranze non bianche. Da qui l’abbattimento delle statue di Colombo, il tentativo di coinvolgere nella lotta le minoranze di origine non europea in modo differenziato in base dell’intensità della colorazione della pelle, il legame con le battaglie dei democratici “progressive” dai diritti LGBTQ+ a quelle “defund the police” fino alla non perseguibilità dei reati di furto sotto una certa cifra come a San Francisco.
Questo tipo di posizioni pacifiste, anti-capitaliste ed estremiste si sono diffuse sulle coste americane e soprattutto tra intellettuali e artisti, rinvigorendo l’antisionismo radicale. La logica è che gli Ebrei sono bianchi, capitalisti (vecchio stilema antisemita) e colonialisti, e quindi si deve stare sempre dalla parte degli Arabi (considerati non bianchi), poveri e originali abitatori della Palestina (fin con la ridicola reinterpretazione di Gesù palestinese!!!). La storia e la realtà naturalmente, come nel caso di Trump, sono opinioni!
Molti giovani, compresi gli Ebrei, in America sono stati influenzati da tale narrazione con tutto il contorno di cantanti, attori, intellettuali e universitari; detto per inciso questo fenomeno ha anche contribuito alla vittoria di Trump. Come per tutti i fenomeni nati negli USA, esso si ripresenta nei “clientes” dell’impero. In Italia queste posizioni non solo hanno trovato terreno fertile nel pubblico generale e tra intellettuali e artisti, ma hanno influenzato parte delle comunità ebraiche e specialmente i più giovani.
Conclusioni
Analizzare il contesto in cui si sviluppano le narrazioni in politica internazionale è fondamentale, poiché spesso sostituiscono la realtà per plasmare le opinioni pubbliche; questo soprattutto quando si desidera polarizzare le posizioni politiche come nei casi di conflitti bellici.
L’antisemitismo di tipo razziale si è trasformato, come abbiamo visto, via via anche in Italia (ma non solo) in antisionismo; questo nel senso di respingere ogni affermazione del mondo ebraico come popolo che si autodetermina. Spesso si accetta l’ebreo come fedele di una religione diversa ma quando si individuano comportamenti che ne mettono in luce l’appartenenza ad un popolo distinto scattano i vecchi stereotipi dell’antisemitismo opportunamente trasformati. Ovviamente, nel caso della realtà statuale israeliana, questo spostamento diviene facilissimo, così da richiedere all’ebreo di discolparsi o prendere le distante dalle azioni dello Stato di Israele.
Poi per tutti i motivi di politica internazionale (appeasement nei confronti del mondo arabo e anti-americanismo) o di politica nazionale (costruzione di un terreno unitario del cosiddetto “campo largo”) la narrazione anti-israeliana scivola facilmente nell’antisemitismo non esplicitato.
Questo avviene a prescindere dalle scelte condivisibili o meno del governo Israeliano o di Netanyahu (novello Erode). Tutto diviene accettabile, anche le fake news smentite pochi giorni dopo o la completa accettazione della narrazione di Hamas veicolata da Al Jazeera. Il punto di vista israeliano viene ignorato in quanto proveniente dal “male assoluto”.
L’eccezionalità con cui viene trattata qualsiasi notizia su Gaza in confronto alle analoghe notizie delle altre 59 guerre nel mondo fa parte di questa narrazione pro-pal (in televisione muoiono solo bambini gazawi). Le profonde divisioni in Israele sulla conduzione della guerra e sul ruolo di Netanyahu vengono presentate come sostegno implicito al popolo palestinese. In definitiva, una discussione reale su scelte politiche diverse e/o anche inaccettabili si trasforma in un dover prendere posizione tra il Bene e il Male in uno slittamento dalla politica alla morale che mai ha permesso di capire veramente come stanno le cose.
Un contributo vasto e lucidissimo che dobbiamo far girare ai tanti sempre più disinformati. Grazie e complimenti