Chi salverà i salvatori?

È una domanda semplice e definitiva. E anche terribilmente scomoda. Perché nei conflitti moderni – come quello che Israele sta vivendo da mesi – i soldati non sono solo combattenti. Sono padri, madri, studenti, lavoratori, rabbini, figli. Sono cittadini che si alzano dal divano di casa, lasciano un pranzo di famiglia o un esame universitario, per rientrare sotto le armi e ritrovarsi, di nuovo, nel caos della guerra.

Ma quando la missione è finita, chi li accoglie? Chi li cura? Chi li ascolta davvero?
La risposta, spesso, è: nessuno. O troppo tardi.

Il trauma silenzioso

Il ritorno a casa non è mai un ritorno “vero”. Molti riservisti israeliani – richiamati per mesi, anche fino a 500 giorni – non ritrovano il loro posto nella vita che avevano lasciato. Le relazioni si sfilacciano. I figli non li riconoscono. I sogni professionali si interrompono. E dentro di loro, qualcosa si è spento o si è rotto. Parliamo di trauma da combattimento, ma in realtà è molto più largo: è un trauma esistenziale. Un crollo dell’identità. Perché chi ha visto morire un amico, chi ha sparato per difendersi o ha raccolto un bambino ferito non può più tornare “intero”.

(Foto EPA/ATEF SAFADI)

L’esercito risponde, ma può bastare?

L’IDF ha mobilitato oltre 1000 psicologi e psichiatri militari. Non aspettano più i soldati nei centri di Tel Aviv: li raggiungono al fronte, mimetizzati e armati. Come un tempo i “politruk” dell’Armata Rossa, ma non per motivare alla battaglia: per evitare che qualcuno si uccida, o impazzisca, o si disintegri lentamente. È un passo avanti. Ma è anche il segno di una crisi strutturale. Quando uno Stato si regge su un servizio militare di massa, quando l’identità nazionale è così profondamente intrecciata al concetto di difesa armata, non si può ignorare il prezzo umano. Perché quello che si spezza al fronte non lo rimetti insieme con uno psicologo solo.

Un patto rotto

La società israeliana ha sempre fatto un patto implicito con i suoi soldati: ti chiedo molto, ma ti proteggerò.
Oggi quel patto sembra logorato. Troppe missioni, troppi richiami, troppi obiettivi confusi.
E così, i “salvatori” – quelli che combattono, difendono, sopravvivono – si ritrovano soli, stanchi, persi.

Chi li salva, allora? Forse la risposta sta in un cambiamento culturale più che solo sanitario.
Serve una società che smetta di glorificare solo il sacrificio e inizi a onorare anche la fragilità. Che accetti il diritto alla cura, alla crisi, al dubbio. Che non lasci sole le famiglie. Che riconosca che difendere la nazione non significa annientare se stessi.

Perché un paese che dimentica chi lo ha difeso, rischia di perdere molto più di una guerra: rischia di perdere la propria anima.

(Special thanks to: Domenico Monda)

2 thoughts on “Chi salva i salvatori?

  1. L’articolo in sé è molto bello, ma l’Autore, che auspica “ il diritto alla fragilità, alla crisi al dubbio “ dimostra di non conoscere secoli e secoli di speculazione ebraica, di esegesi talmudica , di elaborazione halachica. Dimostra anche di non conoscere il dibattito che sta attualmente lacerando la società israeliana…

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