di Giordana Terracina*

Nel libro Why Terrorism Works: Understanding the Threat, Responding to the Challenge, edito dall’Università di Yale nel 2002 e tradotto in Italia dalla Carocci nel 2003 con il titolo Terrorismo, Alan M. Dershowitz si pone un quesito la cui risposta è oggi più che mai attuale, se il terrorismo con i suoi attacchi alla fine paghi e quale sia il vantaggio ricavato.  

Celebre avvocato e professore di diritto ad Harvard, ha voluto riflettere sulle responsabilità dell’Occidente nella nascita e diffusione del terrorismo, ponendosi in maniera provocatoria.

Con un salto temporale e arrivando a questi giorni, due notizie si innestano subito nella discussione. Una è la liberazione annunciata da una corte francese e prevista per i per i primi di dicembre di Georges Ibrahim Abdallah, tra i fondatori delle Fazioni Armate Rivoluzionarie Libanesi (FARL) e membro del Fronte per la Liberazione della Palestina-Operazioni Esterne (FPLP-OE), organizzazione voluta da Wadi Haddad in quanto contrario ad abbracciare una linea più morbida nella lotta contro Israele e l’Occidente.

Abdallah è stato condannato nel 1987 all’ergastolo per l’omicidio compiuto a Parigi nel 1982 di Charles Ray, un militare statunitense, per quello di Yakov Barsimentov e per il tentato omicidio nel 1984 di un diplomatico israeliano, Robert Homme, allora console a Strasburgo.

Definito dalla stampa italiana come attivista o militante comunista, la cui detenzione è stata descritta dal premio Nobel Annie Ernaux come un qualcosa che <<fa vergognare la Francia>>. 

La Francia, uno Stato, che già nel luglio 1990 aveva graziato per mano del suo presidente Francois Mitterand, Anis al-Naqqash, ex membro di al-Fatah, già implicato nell’assedio alla sede OPEC di Vienna nel 1975. Insieme ad altri terroristi aveva tentato di assassinare in un sobborgo di Parigi il 18 luglio 1980 Shapur Bakhtiar, ultimo primo ministro sotto lo scià Mohammad Reza Pahlavi, causando la morte di un poliziotto e di un vicino di casa del politico. Condannato il gruppo all’ergastolo e rimpatriato a Teheran prima del fine pena.       

La seconda è di poche ore fa e riguarda l’emissione da parte della Corte penale internazionale (Cpi) dei mandati di arresto nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, con l’accusa di aver commesso crimini di guerra a Gaza, durante gli attacchi dell’esercito israeliano in risposta all’eccidio del 7 ottobre 2023, compiuto dai terroristi di Hammas contro la popolazione civile e contro i soldati israeliani, costata la vita a 1200 persone e il rapimento di altre 254, di cui 229 civili e 25 soldati.

Un tribunale il cui lavoro trova una potente eco nelle risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, emesse a senso unico contro lo Stato ebraico, preoccupate di porre fine “all’illegale occupazione” dei territori da parte israeliana e del cessate il fuoco a Gaza, dimenticandosi degli ostaggi ancora in mano ad Hamas, dei lancio continuo dei missili verso Israele e del fattore scatenante della guerra.

Nell’accusa si parla di <<un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Gaza>>. Tale decisione comporta come effetto, che i due interessati non potranno recarsi in uno dei 120 paesi che riconosce la competenza del tribunale, altrimenti saranno passibili di arresto.

Due notizie che forniscono già degli utili tasselli per una prima risposta al quesito posto.

Approfondendo ulteriormente è possibile aggiungere altre riflessioni.

Partendo dal 1973, anno della guerra del Kippur, guerra difensiva combattuta da Israele contro l’Egitto e la Siria, intenzionate ancora una volta a distruggere lo Stato ebraico. Un momento di svolta decisivo per la questione palestinese, promossa da una galassia di organizzazioni, tra cui la più importante l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), guidata da Arafat dal febbraio 1969. Tale anno segna il passaggio di mano dagli Stati arabi alle organizzazioni nella lotta per la nascita dello Stato di Palestina, avendo ormai capito che una guerra convenzionale non sarebbe mai stata vinta e che fosse giunto il momento, dopo le sconfitte del 1948 e del 1967 di cambiare strategia. La via sarebbe stata quella politica delle pressioni tramite il mercato del petrolio sui governi degli Stati e quella del terrorismo, per destare la coscienza del mondo, risvegliare l’opinione pubblica e l’attenzione della stampa. L’intento era dunque quello di portare la questione dell’autodeterminazione del popolo palestinese all’attenzione del mondo occidentale.

Senza soffermarsi troppo sui tanti attentati, dirottamenti e omicidi che hanno insanguinato l’Europa e non solo, ciò che invece deve essere posto in rilievo sono le conseguenze che ne sono derivate.

Nel settembre 1972 Settembre Nero compie la strage contro gli atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco, nel dicembre 1973 viene compiuto l’attentato all’aeroporto di Fiumicino che causa la morte di 32 persone e il ferimento di 50, in aprile vengono uccisi 18 israeliani nell’insediamento di Qiryat Shemona per mano del FPLP e ancora il FPLP il 15 maggio 1974 prende in ostaggio 90 bambini in una scuola a Ma’alot in Israele assassinando 27 persone e ferendone 70.

Il mondo risponde a questo orrore con il summit arabo a Rabat il 28 ottobre 1974, in cui viene proclamato l’OLP quale rappresentante ufficiale del popolo palestinese, con l’invito il 13 novembre 1974 ad Arafat a parlare davanti all’Assemblea generale dell’ONU anche se non capo di Stato, con la concessione da parte delle Nazioni Unite il 22 novembre 1974 dello status di osservatore all’OLP, con l’approvazione della risoluzione che equipara il sionismo al razzismo il 10 novembre 1975 e con l’istituzione nella stessa giornata del Comitato per l’esercizio dei diritti inalienabili del popolo palestinese.     

È possibile parlare di un riconoscimento a livello internazionale dell’OLP come soggetto politico, con la conseguente capacità di negoziare alla pari con gli altri Stati, tra cui Israele.

Una risultato sicuramente molto vicino a quello che si vorrebbe oggi proporre per Hamas ed Hezbollah, entrambi considerate formazioni terroriste dall’Unione Europea, dagli Stati Uniti, da Israele, dal Canada, dal Regno Unito, dall’Australia, dalla Nuova Zelanda e dal Giappone. Il fatto stesso che i razzi lanciati quotidianamente contro la popolazione civile israeliana, causa di morte e distruzione, vengano definiti da taluni come azioni militari, distorce il senso vero di attentato terroristico diretto all’annientamento dello Stato d’Israele e rende agli occhi dell’opinione pubblica la causa come giusta, o perlomeno giustificabile.

Una distruzione che come dimostrano le innumerevoli manifestazioni in tutto il mondo, ha fatto inoltre riaffiorare un sentimento di forte antisemitismo, diretto contro ogni persona o simbolo in qualche modo collegato all’ebraismo.

Non è più una guerra nazionale per costruire uno stato palestinese nei territori persi nel 1967, ma è una guerra di distruzione totale, di sostituzione della Palestina in tutto lo stato ebraico. Si vuole l’eliminazione dell’entità sionista e la nascita di uno Stato islamico, si vuole la jihad, una guerra santa contro gli infedeli. 

Seguendo l’insegnamento del Professor David Meghnagi e riallacciandosi all’evoluzione della distruzione degli ebrei così sapientemente spiegata da Raul Hilberg in The Destruction of the European Jews nel 1985, tradotto dall’Einaudi nel 1995 con il titolo La distruzione degli Ebrei d’Europa, e divisa in quattro principali tappe, quali la definizione, l’espropriazione, il concentramento e infine lo sterminio, il discorso si completa.  

È così possibile rispondere alla domanda iniziale, con la consapevolezza della trasformazione delle entità terroristiche di Hamas e Hezbollah in soggetti politici, se non addirittura statali e del riemergere dell’antisemitismo. Il terrorismo dunque paga, di questo se ne ha evidenza.

E chi paga non sono solo gli ebrei e lo Stato ebraico, ma la cultura occidentale tutta.  

Riprendendo ancora un pensiero di Meghnagi in Le sfide di Israele <<è l’Europa a essere in realtà parte di Israele, perché l’idea di Europa come la conosciamo dal dopoguerra è figlia della tragedia di Auschwitz e senza Israele sarebbe come se non fosse mai rinata. È l’Occidente ad avere bisogno di Israele per dire a se stesso che la liberazione dei campi fu il passaggio a un nuovo ordine di valori condivisi, che hanno trovato posto nel diritto internazionale per quanto contraddittoria sia stata la loro successiva attuazione, l’alba del nuovo inizio e non una tregua…>>.

* Giordana Terracina PhD e Master Internazionale di secondo livello in didattica della Shoah

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