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I Campus Usa e la trave nell’occhio

di Carmine Pinto*

Biden è intervenuto. Richiesto da rettori, sindaci e poliziotti. Con uno sgombero efficace e indolore, le autorità Usa hanno “liberato” le università presidiate da studenti, pochi docenti ed occupatori di professione, tutti filopalestinesi. Operazioni in realtà svolte nel nome di prinicpi importati: la libertà di insegnamento e la sicurezza della maggioranza degli studenti, la lotta all’antisemitismo e alle strumentalizzazioni per Biden. Non era difficile. Questi movimenti sono animati da gruppi fortemente minoritari, incapaci di mobilitazioni massicce o discorsi sofisticati.

La loro forza reale è inversamente proporzionale all’impatto generale, ma garantita da tre fattori. Innanzitutto, sono espressione di università di élite, private o pubbliche: si tratta del più elevato livello socioeconomico del mondo libero. In secondo luogo, garantiscono un significativo rimbalzo nel circuito mediatico: sono i centri del sapere nei Paesi democratici. Infine, sono funzionali agli attori che contrastano le politiche occidentali: contribuiscono a delegittimare governi o centri intellettuali. Per capire fino in fondo queste proteste serve quindi andare oltre, non è necessario comprendere solo in cosa consistono, serve conoscere quello che non sono.


Prima di tutto, non protestano per le violenze generali contro le donne. Non è necessario richiamare gli stupri di Hamas, basta pensare a Nika Shakarami. Una giovanissima studentessa, arrestata, violentata e uccisa dalla polizia islamica in Iran. La sua morte ora è conosciuta in dettaglio, come di tante coraggiose iraniane. Si tratta di solo uno dei mille esempi possibili, se osserviamo la repressione di genere, la schiavitù sessuale, le discriminazioni di cui sono vittime nella regione islamica, in Iran, Afghanistan, Sudan, altri stati e la stessa Gaza. Se nessuno, ad oggi, ha chiesto di bloccare gli accordi contro stati per i diritti delle donne, in questo tipo di mobilitazioni non si protesta neppure contro le dittature. In Nicaragua Daniel Ortega ha arrestato, confiscato i beni, a volte ha fatto sparire più di un esercito di oppositori politici, con azioni che superano i limiti della perversione. Repressioni di massa si sono succedute in Cina, Bielorussia, Siria e svariati altri Paesi. Il regime castro-chavista in Venezuela ha provocato la fuga di oltre 7.700.000 persone, un disastro umanitario di proporzioni uniche nel XXI secolo.

Nonostante questo, nessuno degli occupatori chiede di evitare progetti dove ci sono dittature, neppure con Cuba, che pure ispira tutti i regimi del mondo latino. Del resto, per questi movimenti, le politiche imperiali/coloniali sono ancora meno rilevanti. La brutale aggressione russa all’Ucraina non ha provocato nessuna loro reazione, pur accompagnata dalla distruzione sistematica di intere città, dalla deportazione forzata di bambini e civili, dall’uccisione di avversari politici. Per non parlare della politica imperiale iraniana, sviluppata attraverso gruppi para-terroristi come Hezbollah, Houti, Jihad islamica, dell’azione putiniana in Siria o in Georgia, della repressione cinese a Hong Kong.

Non si ha notizia di richieste di azioni contro istituzioni di questi Paesi. Questo ci mostra lo specchio rovesciato di questo tipo di proteste (non di altre ovviamente). La lotta per Gaza non si muove sul terreno di valori universali, né affronta i problemi morali del feroce massacro preparato da Hamas il 7 ottobre scorso. Di converso, attacca proprio il governo Biden, che al mondo è quello più impegnato nel cercare di evitare la tragedia umanitaria; basti osservare come gestisce i negoziati in corso, il suo sforzo imponente per la costruzione del molo necessario agli aiuti umanitari, o come articola i pesanti interventi (ed importanti) critici verso Netanyahu.

Pertanto, restando su questo terreno, se questo tipo di occupazioni non affronta valori generali, a favore delle donne oppresse, o della libertà negata, o dei paesi aggrediti, da cosa è spinto? Quali sono i suoi principi fondativi? Per rispondere, è necessario fare una distinzione. Nei Paesi democratici, ci sono grandi movimenti, dentro e fuori le università, nei partiti e nella società, attenti e impegnati per i diritti civili, la liberazione delle donne, la difesa delle società oppresse. Senza dimenticare che, tra di chi oggi si mobilita nei campus in Europa e in America, non mancano certo persone convinte della necessità di evitare la morte di tanti civili, coinvolti dalla guerra a Gaza.

Questo però non elude il nucleo fondante dei movimenti radicali: la convinzione che i valori occidentali, insieme alla stessa storia delle democrazie liberali, sono l’origine di tutti i problemi contemporanei e un oggetto di antagonismo permanente (come oggi Israele). Non è una novità, perché almeno dagli anni Trenta del secolo scorso, tanti ambienti dell’establishment politico-intellettuale euro-americano hanno cercato miti alternativi alle proprie società: dai partigiani della pace di Stalin ai libretti rossi di Mao Tse Tung, dai barbudos di Fidel Castro fino agli stessi Ayatollah, che furono celebrati al momento della rivoluzione come liberatori dal capitalismo dello Scià filoamericano.

Il tempo presente ha trasformato tale processo storico. Questi movimenti si sono rinnovati, dopo la loro traumatica sconfitta ideologica del XX secolo. In questa stagione, affiancano alla critica verso le democrazie la pretesa di un’indiscutibile superiorità morale ed intellettuale. Uno schema che, a seconda del momento, si può declinare con la componente del pacifismo ideologico, di una presunta lotta anticoloniale, di una rivendicazione di libertà razziale. Sempre e solo a patto di conservare dei caratteri rigidamente antioccidentali e antiliberali, mai dei principi universali. Anzi, costruendo un’interpretazione selettiva del passato, dove collocano torti e ingiustizie tutte del mondo occidentale, mirate ad una giustificazione ideologica, con la vendetta culturale del tempo presente.

Il loro successo, per quanto relativo, è nella garanzia di visibilità mediatica, presenza sociale, più raramente nei ruoli politici. Allo stesso tempo, non va dimenticato, la loro azione è soprattutto la conferma del valore della società aperta. Il mondo libero, quello della battaglia per i diritti delle donne nel mondo islamico o per la libertà delle nazioni come l’Ucraina, per la protezione dei dissidenti in Bielorussia o dei rifugiati da Cuba, è lo stesso che offre a questi movimenti rispetto, attenzione e spazio di azione. Gli studenti che protestano a Parigi e altre città, che ieri il soddisfatto Seyyed Ali Khamenei ha rilanciato con un proprio video, forse non lo pensano o vedono. Eppure, nella terra dello stesso Ayatollah che oggi li esalta, sarebbero in carcere, anche solo per il loro abbigliamento. Per fortuna loro, e nostra, protestano sì ma nel mondo libero, che è tale anche e soprattutto per questo.

*(Il Mattino)

2 thoughts on “I Campus Usa e la trave nell’occhio

  1. intanto sono contenta di aver trovato qualcuno che si pone, rispetto alla questione, in modo stimolante. Io sto tentando una analisi, sto lavorando su questo partendo dalle differenze tra questi ‘movimenti’ e quelli degli anni ’60, è stato l’unico approccio possibile : cercare le differenze. Concordo sul” … patto di conservare dei caratteri rigidamente antioccidentali e antiliberali, mai dei principi universali. ” ma questo mi complica ancora di più il ragionamento perchè, anzi, mi mortifica ancora di più, perchè vorrebbe dire che certi ‘valori’ occidentali – pensiamo alla carta dei diritti universali o alle conquiste liberali e laiche – non sono che una pia illusione che ha generato solo un immenso senso di colpa cieco e sordo. Ringrazio Pinto, il Mattino e la Associazione Italia Israele di Firenze di cui mi onoro di fare parte.

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